Dedico questo libro alla memoria di W.F. Cliffe,
morto a vent'anni a Vauville, nel Maggio 1944,
a un'ora imprecisata. ( M.D. )
(...) Ci vuole sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri. E' una solitudine, la solitudine dell'autore, quella dello scritto. Tanto per cominciare, ti chiedi che cos'era quel silenzio intorno a te e praticamente a ogni passo che fai in una casa, a ogni ora del giorno, sotto tutte le luci, quella di fuori o quella delle lampade accese anche durante il giorno. La solitudine reale del corpo diventa quella - inviolabile - dello scritto. Non parlavo di questo con nessuno. In quel periodo della mia prima solitudine avevo già scoperto che per me scrivere era una necessità, me l'aveva confermato Raymond Queneau. Il solo giudizio di Queneau, questa frase : " Non faccia nient'altro, scriva ".
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Scrivere era l'unica cosa che popolava la mia vita e che la incantava. L'ho fatto. La scrittura non mi ha mai abbandonato.
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La mia camera non è un letto nè qui, né a Parigi, né a Trouville : è una finestra, un certo tavolo, l'inchiostro nero cui ero abituata, una marca di inchiostro nero difficile da trovare, è una certa sedia. E certe abitudini che mantengo, dovunque vada, ovunque sia, anche nei posti dove non scrivo, per esempio le camere d'albergo, l'abitudine di avere sempre un po' di whisky in valigia in caso di insonnia o di disperazione improvvisa. In quel periodo ho avuto degli amanti. Sono rimasta raramente del tutto senza amanti. Si abituavano alla solitudine di Neauphle che con il suo fascino ha permesso anche a loro - qualche volta - di scrivere libri. di rado davo a quegli amanti i miei libri da leggere. Agli amanti, le donne non devono far leggere i libri che scrivono. Quando finivo un capitolo, lo nascondevo. E' così vero - per me - che mi chiedo come fa, altrove e in altre circostanze, una donna che ha un marito o un amante. In questo caso deve anche nascondere agli amanti l'amore per il marito. Del mio nessuno ha mai preso il posto,ogni giorno della mia vita lo so.
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La solitudine non si trova, si fa. La solitudine viene da sé. Io l'ho fatta, perché ho deciso che qui avrei dovuto essere sola, che sarei stata sola per scrivere libri. E' avvenuto così : sono stata sola in questa casa, mi ci sono rinchiusa, con un po' di paura, certo. E poi l'ho amata. E' diventata la casa della scrittura. I miei libri escono di qui, anche da questa luce, dal parco, da questa luce riflessa dallo stagno. Mi ci sono voluti vent'anni per scrivere quello che ho detto ora.
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Rende selvatici la scrittura. Si torna ad una selvatichezza di prima della vita. E la si riconosce subito : è quella delle foreste, quella antica come il tempo. Quella della paura di tutto, distinta e inseparabile dalla vita. Ci si accanisce. Non si può scrivere senza l'energia del corpo. Bisogna essere più forti di se stessi per affrontare la scrittura, bisogna essere più forti di ciò che si scrive. E' una cosa strana: non è solo la scrittura, lo scritto, è il grido degli animali della notte, quello di tutti, quello di voi e di me, quello dei cani. E' la volgarità greve , disperante, della società. Il dolore; è anche Cristo e Mosè e i faraoni e tutti gli ebrei e tutti i bambini ebrei, ed è anche la felicità più violenta. Questo io credo, sempre.
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Scrivevo tutte le mattine, ma senza un orario, mai, se non per cucinare. Sapevo quando dovevo intervenire perché il cibo bollisse o perché non bruciasse. E anche per i libri lo sapevo. Lo giuro. Tutto - lo giuro - non ho mai mentito in un libro. E neppure nella vita. Eccetto agli uomini. Mai. E questo perché mia madre mi aveva spaventata con la bugia che uccideva i bambini bugiardi.
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Mi piacerebbe raccontare la storia che ho raccontato una prima volta a Michelle Porte che aveva fatto un film su di me. In quel momento della storia mi trovavo in quella che chiamavamo la dispensa, nella casetta che è in comunicazione con la casa grande. Ero sola, aspettavo Michelle nella dispensa. Rimango spesso sola in posti calmi e vuoti. A lungo. Ed è stato in quel silenzio, quel giorno, che di colpo ho sentito e visto sulla parete, vicinissima a me, gli ultimi minuti della vita di una comune mosca. Mi sono seduta per terra per non spaventarla e non mi sono più mossa. Ero sola con lei in tutta la vastità della casa. Non avevo mai pensato alle mosche fino a quel momento, se non probabilmente per maledirle, come tutti. Anch'io sono cresciuta con l'orrore di questa calamità mondiale, che portava la peste e il colera.
Mi sono avvicinata per guardarla morire.
Lei voleva fuggire dal muro dove correva il rischio di rimanere prigioniera della sabbia e del cemento che si depositava su quel muro con l'umidità del parco. Ho guardato come moriva una mosca. E' stato lungo: si dibatteva contro la morte. Forse è durato dieci, quindici minuti, poi si è fermata. Sono rimasta per continuare a vedere. La mosca è rimasta sul muro come l'avevo vista, come saldata ad esso.
Mi sbagliavo : era ancora viva.
La mia presenza rendeva quella morte ancora più atroce. Lo sapevo e sono rimasta. Per vedere. Per vedere come la morte avrebbe invaso la mosca e anche per vedere da dove veniva quella morte, da fuori o dallo spessore del muro, o dal suolo. Da quale notte veniva, dalla terra o dal cielo, dai boschi vicini o dal niente ancora indefinibile - vicinissimo forse - a me che cercavo di ripercorrere l'itinerario della mosca che stava entrando nell'eternità.
Non ricordo più la fine: probabilmente la mosca, allo stremo delle forze, è caduta, le quattro zampe si sono staccate dal muro e lei è caduta. Non ricordo più niente, solo che mi sono allontanata. Ho pensato : " Stai diventando pazza".
La morte di una mosca è la morte : è la morte verso una certa fine del mondo, che estende il campo dell'ultimo sonno. Si vede morire un cane, si vede morire un cavallo e si dice qualcosa, ad esempio " povera bestia..." Ma se una mosca muore non si dice niente, non si regista. Niente.
Adesso è scritto. (...)
Marguerite Duras da Scrivere
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