sabato 4 gennaio 2020

L'ECLISSI DELLO SGUARDO 4



(…) Quanto alla vecchiaia, il suo declassamento è altrettanto
       recente. In una società che è tornata a credere non già alla
       Vita Eterna, ma all' Elisir di Lunga Vita, era un passaggio
       prevedibile e forse inevitabile. Se il linguaggio corrente fa da
     spia ai mutamenti del sentimento comune,la progressiva e ormai
     quasi totale scomparsa della parola" vecchio"rivela lo sminuirsi
    del concetto che c'è dietro.Questo timore di offendere sta sempre
    a indicare un vago senso di colpa,il bisogno di celarlo agli occhi
    dell'interessato e - se possibile -  anche a se stessi. Che genere
    di colpa? Semplicemente quella di essere tornati a considerarli
    un peso per la comunità. Bisogna andare a ritroso nel tempo di
    parecchi millenni per trovare qualcosa di simile nella nostra
    specie - anche se gli antropologi attestano che poco più di un
    secolo fa, c'erano ancora, in certe plaghe remote dell' Asia
    centrale, tribù nomadi di cacciatori - come i birhor - presso i
    quali"i figli mangiavano per pietà i genitori fattisi troppo vecchi,
    pur avendo orrore per ogni altra forma di antropofagia " (
   Grottanelli, 1966 ). Ma si trattava - appunto - di nomadi, per i
   quali, effettivamente,la decadenza fisica comportava l'incapacità 
   di spostarsi, il che rappresentava un terribile impedimento per la
   comunità: letteralmente un peso insostenibile.
   L' abbandono emotivo invece che oggi l'anziano sperimenta nella
   nostra società, agevola in lui una sorta di accelerazione dei
   processi di degenerazione fisica, favorendo il sorgere o il
   progredire delle malattie. Perché dover convivere con il silenzio
   e il vuoto affettivo nel crepuscolo della propria esistenza, dover
   accettare la solitudine e l'indifferenza, è come aver contratto la
   più terribile delle malattie. Da questo contagio si difendono i
  cosiddetti sani.A pagarne maggiormente le spese è il morente che,
  in risposta alle proprie ansie e ai propri dubbi, alla paura per
  imperscrutabile sorte che lo attende, trova solo un mutismo
  omertoso, un muto silenzio che gli rimanda un'immagine di sé
  ancora più angosciante perché esclusa da ogni discorso, da ogni
  tentativo di condivisione: della morte non si parla e difficilmente
  il malato trova qualcuno che abbia la forza e la semplicità di
  aiutarlo a prepararsi all'evento che lo attende. Quello che allora
  accade è che il morente percepisce la sua presenza come una
  presenza colpevole. Molti malati terminali, per esempio, vivono
  l'ansia di essere di peso ai familiari e il paradosso che,del vissuto
  di morte non si parla, e anzi lo si esorcizza con tutti i mezzi.
  In particolar modo, quando il malato terminale è un bambino,
  vige la convinzione che egli debba essere protetto da questa
  incombente presenza che esulerebbe dalla sua comprensione.
  Nulla di più sbagliato: non solo i bambini comprendono il
  significato della parola morte, ma riescono a evocarla a livello
  simbolico più vivamente di un adulto, e questo presumibilmente
  in ragione di una maggiore aderenza ai propri contenuti inconsci
  (…)




            Aldo  Carotenuto   da        L'eclissi dello sguardo

 
  

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