domenica 12 gennaio 2020

IL PIANTO, OLTRELINGUA DELLA COMPASSIONE

 
 

" Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro.
  Non  sapevo bene come toccarlo, come raggiungerlo…
  Il paese delle lacrime è così misterioso. "   
            
 (  Antoine de Saint- Exupéry )

  
(…) Accade che in una relazione, non solo amorosa, si faccia
       esperienza del pianto: in presenza dell'altro o in sua assenza.
       La letteratura drammatica e il cinema sono un repertorio
       illimitato di scene in cui il pianto è passaggio dell'azione,punto
       di svolta, scioglimento. Moto di gioia o, più spesso, di dolore
     che non si fa lingua o che scavalca - di colpo , impetuosamente-
      la soglia della lingua, il pianto travolge quel nesso tra il
      sentire e il dire che è fondamento della rappresentazione di sé,
      dello stesso rapporto con l'altro.
      Una  storia delle lacrime : Roland Barthes nei Frammenti di un
      discorso amoroso accenna a una sua linea possibile. Una linea
      che potrebbe seguire il percorso che va dalla sensibilité alla
      sensiblerie , diremmo da un sentire netto,esplicito, fanciullesco,
      a un sentire sfumato, disperso, spiritualizzato, e anche
      intorbidato dalla civiltà, complicato dalle sopravvenute forme
      di controllo. In effetti spesso, all'espressione immediata del
      sentire, si oppone il contegno, o quell'esercizio del controllo
      che scambia il dominio di sé col dominio dei sentimenti. O che,
      ancora peggio, mostra di avere un'idea maschia del carattere,
      delegando al femminile e alla  sua pretesa fragilità la libera
      manifestazione delle pulsioni emotive. Si racconta che- invece -
      fin sulla soglia del Novecento, l'identificazione a teatro con le
      passioni rappresentate inducesse frequentemente donne e
      uomini al pianto. Si era ancora nell'orizzonte romantico di un
      ascolto fisico, corporeo, in grado di trascinare tutti i sensi nel
      senso dell'ascolto e del vedere?
      La compassione a teatro - elemento che dalla poetica di
      Aristotele alla teoria drammaturgica di Lessing era stato
      osservato come relazione precipua tra il sentire dello spettatore
       e il patire del personaggio - cercava ancora la via diretta,
       fisica, dei sensi?
       Il pianto e la compassione. Può accadere che l'identificazione  
      con la sofferenza altrui -movimento proprio della compassione-
      trascini con sé una tale energia fisica che la lingua non può
      raccogliere tutto il ventaglio del sentire. Questa identificazione,
      proprio perché è trascinata dall'ala dell'immaginazione, può
      avere anche come oggetto quel dolore che è messo in scena
      dalla finzione narrativa o teatrale: si può piangere col
      personaggio o al suo posto. E' Montaigne che ha raccolto
      benissimo questa doppia tensione identificatoria - nei rapporti
      reali e in quelli fantastici - e lo ha fatto, secondo i modi degli
      Essais, disegnando un aspetto del proprio ritratto : " Sento una
      tenera e forte compassione per le afflizioni degli altri, e
      piangerei facilmente per compagnia, se sapessi piangere per
      una qualsiasi occasione. Non c'è nulla che provochi le mie
      lacrime quanto le stesse lacrime e non solo quelle vere, ma
      comunque siano, anche finte o dipinte ".  (…)



            Antonio  Prete  da   Compassione ( Storia di un sentimento )


2 commenti:

  1. Piangere per compassione, anche di se stessi, senza tema di rientrare nello stereotipo del "piangersi addosso", spero che lo abbiano provato tutti. In amore poi… ci sarebbe da preoccuparsi se non si soffrisse: vorrebbe dire che abbiamo "sterilizzato" i sentimenti.
    C'è un'altra tipologia di pianto che è più affine all'emozione: personalmente è legato alla musica, non so perché, forse per quella sensibilità che mi ha trasmesso mio padre quando si metteva al piano la sera e suonava.

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  2. Ti ringrazio per questo personalissimo commento che ci regala, attraverso il ricordo, un sentimento della tua infanzia.
    Per il resto, mi sembra molto pertinente e un giusto risultato di indagine ( che non può essere fatta se non su noi stessi ) quando affermi che è sacrosanto e doveroso avere una " giusta " compassione anche di noi stessi ( purchè non diventi uno sterile piangersi addosso ).
    Ma la vera compassione ( anche dalla sua radice latina "cum patior ", vale a dire " sopportare con " ) la si vive e la si sperimenta quando ( senza facili concessioni ad altri tipi di sentimenti , come dice lo stesso autore nei brani che ho postato da poco )ci avviciniamo alla pena e al dolore dell'altro con sincero rincrescimento, quasi che ad esserne colpita non sia solo la nostra emotività ( a volte suggestionabile ), ma tutto il nostro essere, carne e sangue,
    materia vera e viva che ci accomuna ad un medesimo destino umano ( o anche animale, come afferma l'autore ).

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