Ti porto come il più necessario dei pesi il più caro il più doloroso somma d'inerme bellezza che mai più mai più. Sulle spalle ti porto sono un uomo piegato che strazia i punti cardinali con la tua esposizione un dio esposto che ti lascerà cadere frammentata in meteore a fecondare la terra su cui ora strisciano le fronti. E cadranno i tuoi occhi irraggiando cupole e vicoli di nerezza cadranno le tue gambe moltiplicando tumuli e altari cadrà il velo dei tuoi capelli su ogni operosità e ogni rinuncia cadrà il tuo ventre l'humus del sesso a colmare i solchi perimetrali cadrà anche la chiostra dei tuoi denti ad azzannare l'aria del precipizio e spalancare i templi. Il tuo corpo smembrato fonderà città e territori. Il tuo corpo smembrato edificherà la topografia del lutto. Uno per il Desiderio uno per la Gioia uno per la Devozione uno per la Cura uno per il Coraggio uno per la Visione uno per la Metamorfosi. I tuoi sette passi nuziali, Jaye. Tu in abito maschile io nella veste da sposa dio-capro imbiancato e angelicato. Noi Sole e Luna, Regina e Re. Noi Rebis. Il mio zolfo e il tuo mercurio. Io non ho mai voluto - Jaye - altro che consegnarmi a te portare sulla pelle il segno della definitiva appartenenza ripudiare la falsità degli specchi per vedermi solo nei tuoi occhi impegnare la carne nel transito da me a te, da me a noi approdare mano nella mano al primo risveglio da eguali dipapidarmi in te e ricostruirmi in eccedenza abbagliare gli dei con la luce aurea dei miei denti - noi, dall'antica ferita dimidiati e per le nuove ricostituiti noi, i due volti colpevoli di eccesso - riscrivere il mito, Jaye, inciderlo sul corpo. Fino al giorno in cui il mito ti ha pretesa. Io pongo il mio respiro in te, hai detto. Io ricevo il tuo respiro in me, ti ho risposto. Io pongo la mia parola in te, hai detto. Io ricevo la tua parola in me, ho risposto. Io pongo il mio occhio in te, hai detto. Io ricevo il tuo occhio in me, ho risposto. Io pongo il mio orecchio in te, hai detto. Io ricevo il tuo orecchio in me, ho risposto. Io pongo la mia mente in te, hai detto. Io ricevo la tua mente in me, ho risposto. Io pongo il mio piacere e il mio dolore in te, hai detto. Io ricevo il tuo piacere e il tuo dolore in me, ho risposto. Io pongo le mie azioni in te, hai detto. Io ricevo le tue azioni in me, ho risposto. Ci credevamo salvi perché interi e oggi io non sono che il tuo kolossos la pietra da cui tu, l'Oltrepassata, t'affacci per tornare. Sono Orfeo, Jaye. Vengo dove tu sei soltanto per guardarti soltanto per trasgredire una terza volta. Diranno di noi ciò che ai loro occhi avremmo dovuto: fonderci in un figlio ciò che ai loro occhi non abbiamo saputo: che l'Uno è un viaggio da compiere dentro o che l'altro è altro solo in apparenza. Ma quel che volevamo non lo sapranno dire: il tuo cuore, a muovere il mio sangue i miei polmoni ad insufflarti l'aria lo scambio delle bocche, la tua dentro il castone della mia faccia le orbite - le tue - con i miei globi le mani - mie a finimento delle tue braccia. Laura Liberale Inediti
NESSUNO SI PERDE MA NIENTE SARA' COME PRIMA Entro ed esco dalla nostalgia tirchia nei miei dolori lenti e mi basta il tuo bene per vivere oltre i miei giorni con una macchia di confini al petto la complicità di misurarsi con le lune nella memoria del bosco che riconosce i dispersi fra i tramonti d'onde snelle che rinnovano girasoli lattici tra le nubi mentre il risveglio ha le idee chiare appoggiandosi all'acqua dell' anima altrui nessuno si perde ma niente sarà come prima.
SUDARIO DEL CORPO SENZA SEME La pianta che muore è una bocca in cerchio la radice che muore è la sentenza della pigrizia del tempo nel maltempo della radice sono sazia d'aver amato l'amore sazia del corpo del grano e della paglia senza il pane il contrario delle felicità non è un dito fuori dalla scarpa ma il piede dentro il corpo. Anila Hanxhari da Brindisi degli angeli
" La tristezza non va dispersa perché ha in sè la condensazione della possibilità " ( S.K.)
(...)Un'unica, intensa, incoercibile volontà di sottrazione alla prosa del mondo accomuna Kleist, Kierkegaard e Kafka, solidali nell' intento di prendere congedo dalle rispettive fidanzate o, perlomeno, di mantenerle rigorosamente a debita distanza . Un analogo, radicale, estremo desiderio di solitudine, quasi una necessità ,per certi versi una condanna, che viene posta in essere attraverso complesse e molteplici motivazioni, realizzata attraverso strategie assai differenziate, ma convergenti nella caparbia ostinazione che non può accogliere le ragioni dell' altro, indifferente al doloroso dissenso di chi viene abbandonato senza essere colpevole di alcunché. Kleist si isola dal brusìo del mondo esterno alla nichilistica ricerca di un amore esclusivo in cui si dissolva ogni presenza e si dischiuda una prossimità assoluta; Kierkegaard sembra declinare ogni responsabilità relativa alla configurazione etica dell'esistenza, rifugiandosi nel dominio extraterritoriale del religioso; ancor più esplicitamente Kafka si rintana in una cantina nella quale può isolarsi dal rumore del mondo e salvaguardare le istante indivisibili della scrittura. L'ambivalenza della solitudine - subìta ma anche ricercata - è esemplificata molto bene da una parabola raccontata da Schopenhauer : " Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero vicini vicini, per proteggersi col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto - però - sentirono le spine reciproche e il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripetè quell'altro malanno, di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finchè non ebbero trovato una moderata distanza reciproca che rappresentava per loro la migliore posizione". Il dilemma originario dei porcospini sembra adattarsi bene al senso della nostra esperienza: la solitudine è intollerabile, ma gli aculei della vicinanza sono ancora più dolorosi .(...) Marco Vozza da A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate )
(...) La tiepida distanza intermedia è certamente il compromesso abituale, ma i protagonisti della nostra storia non sembrano inclini ad alcun compromesso. Kafka scriverà nel 1922 a Max Brod :" Che dire della solitudine? In fondo essa è la mia unica meta, la mia più grande attrattiva, la mia possibilità". Si tratta cioè di organizzare la propria vita affinché la solitudine - per quanto orribile - si trovi a proprio agio e con essa la scrittura, che le è consustanziale. In palese conflitto con la scelta della solitudine al fine di tutelare la propria singolarità, i nostri autori ( i quali - come si comprenderà sin dalle prime pagine - sono personaggi concettuali di chi scrive ) avvertono l'esigenza (per lo più disattesa ) di una palpitante condivisione del loro universo interiore, mediante la presenza ( non troppo invadente ) di una donna che appaia loro come vocativo o dedicataria di esclusive trame concettuali e avventure esistenziali. All'interno della dialettica esistenziale tra solitudine e condivisione, si insinua un'altra ,ineludibile dimensione di scelta, quella di una vita che asseconda la fluida e ingovernabile logica del desiderio e quella più rassicurante e continua regolata da una logica degli affetti. Logiche tra loro eterogenee che appaiono inconciliabili ai protagonisti della storia qui ricostruita ( Kierkegaard e Kafka ) e che talvolta inducono ad un esito tragico ( come nel caso di Kleist ). Marco Vozza da A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka , Kleist e le loro fidanzate )
(...) Erede di una nobile famiglia prussiana molto attiva fra le alte gerarchie militari, Heinrich von Kleist attese il ventitreesimo anno di età per fidanzarsi con Wilhelmine von Zenge, figlia del comandante della guarnigione di Francoforte. Gli Zenge dovevano essere molto affabili, espressione di quella socievolezza che favorisce relazioni personali piacevoli ma superficiali. Così il giovane Kleist ebbe a notare la profonda differenza che sussiste tra una pur brillante chiacchiera e una conversazione che richiede la capacità di indugiare e di soffermarsi a lungo su un argomento, analizzandolo in ogni sua parte fino ad esaurirne il potenziale d'attrazione. Con tale esercizio si consegue comunque una delle mete più auspicabili concesse all'uomo, cioè la sua integrazione nell' uniformità adattiva del sociale, mentre lo scrittore, l'artista, il filosofo perseguono un altro , più impervio e problematico scopo che può essere raggiunto soltanto attraverso la solitudine, il pensiero, la cautela e la precisione. Fin da ragazzo Kleist aveva individuato lo scopo della sua esistenza, la sua peculiare destinazione - o meglio - la condizione trascendentale che rende possibile qualsiasi esistenza : edificare un piano di vita e porlo davanti a sé come ideale regolativo che orienta ogni esperienza. Perseguire questo disegno di vita esige il doloroso affrancamento dalle tradizioni familiari e richiede la presa di congedo dalla carriera militare e da ogni altro impegno per dedicarsi esclusivamente alle scienze, alle arti e alla filosofia : " soltanto mediante tale ferma risoluzione, incomprensibile agli spiriti ignavi , sarà possibile essere soddisfatti di sé, consapevoli della propria dignità e godendo della " gioiosa visione" della bellezza morale del nostro Io. " (...) Marco Vozza da A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate )
(...) Improvvisamente, nell'estate del 1800, Kleist parte per un viaggio misterioso" intrapreso senza alcuno scopo", suscitando l'apprensione dei familiari ai quali richiede assoluto riserbo. Alla sorella scrive che il raggiungimento dello scopo del viaggio " dipende in gran parte dalla possibilità di tenerlo celato a tutti", mentre alla fidanzata confida che la felice conclusione di tale viaggio renderà finalmente possibile la soddisfacente manifestazione del loro amore. Si è congetturato a lungo sul motivo del viaggio kleistiano e sul segreto in esso celato, arrivando perlopiù a ipotizzare ( peraltro senza alcun fondamento testimoniale)che l'obiettivo fosse quello di rimuovere - forse chirurgicamente - un ostacolo che inibiva l'attività sessuale dello scrittore. Dopo aver fatto notare che differenti patologie della sfera sessuale sono state evocate anche a proposito di Kierkegaard e di Kafka, si vorrebbe qui avanzare un'altra ipotesi - altrettanto fantasiosa - ma affine e compatibile con la tacita visione del mondo manifestata dai protagonisti della nostra storia. Allontanandosi da Francoforte - comunque - l'uomo inesprimibile pone a debita distanza la fidanzata , la trasforma nella destinataria delle sue prolisse missive e perfeziona il suo lavoro di idealizzazione, conferendole quelle caratteristiche che la sua prosaica appartenenza sociale nonché la sua insufficiente formazione culturale le negano: questo potrebbe costituire l'arcano di un viaggio inesplicabile, il senso di un' ardua rotta progettata con saggezza dall'audace timoniere, il cui approdo coinciderà con il concepimento dell'amore . (...) Marco Vozza da A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e lo loro fidanzate )
(...) Franz Kafka vive nel " continuo terrore di non saper più scrivere ", inetto e sconsolato come un vecchio che la sera torni a casa con la merce invenduta. Spesso la sua vita manca di giustificazione, così da identificarsi esclusivamente con la malattia, con l'astenia cronica, con l'inconsolabile malinconia, con la sofferente disarmonia, con la colpevole esclusione dal mondo degli individui attivi. L'affetto e le attenzioni di Felice assolvono ad una funzione vicariale di giustificazione esogena senza riuscire a placare completamente l'inquietudine di un uomo che deve legittimare con indistruttibile evidenza il senso del proprio venire al mondo, di una nascita che Kafka non ha mai considerata compiuta in modo soddisfacente. " Senza scrivere, ero in lite con me stesso", confinato al nulla," se non scrivo c'è come una mano intransigente che mi allontana dalla vita", confida Franz a Felice. Lei lo osserva senza comprenderlo:" il tuo sguardo non vuole fissarmi,passa sempre al di sopra di me", rendendolo ancora più incerto col negargli un sia pur formale conforto relativo ai racconti che le ha inviato :" sii gentile col mio povero libro!", implora Franz. Egli cerca il sostegno di una donna risoluta e vivace, ma contraddittoriamente, desidera anche una sensibilità che probabilmente si è già estinta attraverso la dispersione consumata nel mondo esterno. Ora egli vede con chiarezza l'estraneità della donna alla sua vocazione letteraria, la sua appartenenza ad un mondo che sfugge alle domande improrogabili dell'esistenza, che non avverte l'esigenza di giustificare la propria vita e, al fine di reprimere l'imperscrutabile senso - neppure l'istanza di prendere dimora nel mondo dei significati. Tra quest'ultimo mondo, che egli colloca in una inattingibile sfera iperuranica o piuttosto ipogea e il mondo degli affetti, che prende forma nella prossimità condivisa dell'esistere, sussiste per Kafka - che pure ha sempre avvertito un inestinguibile richiamo verso la comunicazione fra i due mondi - una dolorosa estraneità, una distanza siderale che neppure l'incontro con Mìlena saprà colmare . (...) Marco Vozza da A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka , Kleist e le loro fidanzate )
(...) Franz ( Kafka ) è una monade assoluta, la quale ha chiuso porte e finestre sul mondo esterno, producendo" l'iniziale realtà di una bella esistenza", ma che subito avverte l'istanza di un legame non vincolante, a debita distanza ( " proprio nella distanza sta almeno una parte del mio diritto a te", scrive a Felice),una presenza che generi calore ma non intimità,conforto ma non fusione. Kafka allude qui all'esperienza di Grillparzer, un altro suo sodale:"se dovessi intuire che tu, creatura benigna attiva, vivace, sicura di te, non potresti vivere in comune con la uniforme nebulosità della mia natura, senza dare ascolto alla tua pietà, me lo potresti dire sinceramente?". Quando il legame perdura nel tempo,assumersi la responsabilità dell'abbandono genera un tormento lacerante; Franz cerca ormai di dissuadere Felice :" non potresti vivere accanto a me neppure due giorni - afferma sconsolato - " acquisteresti un uomo malato,debole, poco socievole,taciturno malinconico, rigido, quasi disperato" , anche se vorrebbe ancora trascinarla " nella grande fragilità " che egli rappresenta, come testimone esclusiva del suo malinconico e spettrale percorso esistenziale. Come raggiungere una verità durevole nella convivenza, che sia esente da menzogne e che tuteli al tempo stesso la singolarità ? . (...) Marco Vozza da A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate )
(...) A Copenhagen " in questo angolo di cornacchie, questo covo della prostituzione borghese, in questa città dove non si può vivere felici se non a patto di essere una nullità " nasce, il 5 Maggio 1813 Soren Kierkegaard. A ventiquattro anni conosce Regine Olsen,figlia quattordicenne di un influente consigliere di Stato, ragazza di bell'aspetto e di buon carattere, con la quale Soren si fidanzerà nel 1840, due anni dopo la morte del padre. Ma l'anno successivo, dopo varie peripezie che generarono nella ragazza gravi crisi depressive, Kierkegaard le restituisce l'anello di fidanzamento e rompe definitivamente il rapporto. Un gesto sofferto il suo, compiuto da un individuo affetto da una complessa sindrome psicopatologica, per la comprensione della quale andrebbe convocata l'intera letteratura psichiatrica filosofica e letteraria che si è espressa fin dall'antichità sul tema della malinconia . Nei Diari , Kierkegaard rappresenta costantemente il suo profilo psicologico come temperamento malinconico e considera tale peculiarità responsabile in ultima istanza dell'impossibilità di mantenere il rapporto di fidanzamento nella naturale prospettiva del matrimonio. In una lettera che accompagna il dono di una rosa e che rivela il profilo tetro del suo immaginario necrofilo, il filosofo scrive alla fidanzata che egli è " testimone malinconico del suo progressivo appassire ": constata come lo stelo si sia inaridito, come le foglie piegate lottino contro la morte, come il profumo sia andato perduto, come infine essa sia destinata ad essere deposta " in una tomba bianca e pura ", sigillata dalla donna amata. Indugiando nel suo spleen tardo romantico, Kierkegaard scrive di muoversi nel vuoto, l'unica dimensione che egli riesce a percepire, condannato a morire la morte giorno per giorno perché essa è la forma della vita, dalla quale non scaturisce un solo pensiero che sappia connettere il finito e l'infinito. Per effetto corrosivo di un dubbio ipertrofico, di un'angoscia onnipervasiva : " la mia anima è come il Mar Morto, su cui nessun uccello può volare perché - giunto a metà della via - precipita sfinito nell'abisso mortale". (...) Marco Vozza da A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate )
(...) Tutti vengono partoriti nel dolore, ma alcuni continuano a vivere per il dolore come discepoli dell'angoscia . Nel caso del filosofo danese," l'angoscia, il dolore e lo smarrimento avevano lentamente forzato il catenaccio della coscienza", una disperazione che disperde ogni amabilità pur disponibile nella vita di un uomo. La consapevolezza che viene elaborata è nichilisticamente declinata :" qual qualcosa che sono io è esattamente un niente ", un'esistenza in suspenso , incapace di aderire alla configurazione del reale, tetragona dell' affermazione e incline al forse . L'educazione ricevuta dal padre, vegliardo malinconico , è all'origine della malinconia di Soren, così ben metabolizzata al punto da diventare quasi una causa endogena, cronica, che poi la morte del padre rafforza come causa esogena, acquisita. Dunque malinconia congenita e potenziata nel corso del tempo. " La morte di mio padre fu per me un colpo così tremendo che non ne ho mai parlato con nessuno. Il proscenio della mia vita è oltremodo velato dalla più tetra malinconia e dalle nebbie della miseria diffusa nella profondità della mia anima che non fa meraviglia se io ero quello che ero. Ma tutto questo resta un mio segreto. In altri forse ciò non avrebbe prodotto un' impressione così profonda: ma si pensi alla mia fantasia e specialmente nei primi tempi quando essa non aveva alcun compito cui applicarsi. Questa malinconia congenita, questa immensa dote di dolore, questa situazione così profondamente dolorosa come l'essere educati da bambini da un vegliardo malinconico". Nei confronti del padre, Soren rimarrà sempre umanamente riconoscente, perché è comunque un dono ereditare un' infelicità permanente e una cospicua dote di dolore. (...)
Marco Vozza da A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate )
(...) Nella mia famiglia, dove gli uomini non hanno mai vantato una significativa presenza numerica e neppure goduto di eccessiva considerazione, circolava un caustico quanto prosaico detto popolare : " Le donne non portano nel letto gli asiniperchè stracciano le lenzuola ". Mia madre lo attribuiva alla propria nonna - che non ho mai conosciuto - ma non sapeva dirmi da quante generazioni se lo tramandassero. Cresciuta in un solidissimo matriarcato meridionale, non riuscivo ad attribuirgli un' allusione misogina, così non ho mai pensato - per esempio - che si riferisse alla scarsa selettività femminile in faccende erotiche. Ma piuttosto all'inclinazione che hanno le donne a dedicarsi a una certa attività trasfigurativa: quella per cui l'oggetto d'amore - qualora ve ne sia necessità e a dispetto di qualunque evidenza - può diventare l'uomo dei sogni, quello che si diceva una volta il Principe Azzurro. Si fermano davanti all'intollerabile visione del quadrupede ragliante, ma non prima: tutto ciò che lo precede nella scala dell'improbabile è soggetto a trasformazione: per solitudine, perché non c'è di meglio, oppure inseguendo la chimera di un cambiamento, di un miglioramento del compagno incontrato. Il fatto è che le donne, ben lontane dal pragmatismo maschile, o anche da una cinica accettazione dello status quo , coniugano la realtà con un'attività onirica che rende possibile l'impossibile, bello il brutto e così via. In un certo senso, il proverbio della mia antenata, si può considerare la versione arcaica di quel dialettico e consapevole " Las mujeres, el amor lo inventan ..." (...) Iaia Caputo da Di cosa parlano le donne ( quando parlano d'amore )
(...) E perché non parliamo d'amore a un uomo così tanto e mai nello stesso modo in cui ne parliamo tra noi? Intanto perché solo tra donne possiamo dire ciò che nel rapporto con l'altro resta fuori: il sogno, l'attesa, la disillusione ma anche il rancore, la rabbia, l'amarezza. Tutta un'attività parallela di progetti e illusioni, di speranze come di concrete valutazioni e giudizi che un uomo - comunque - è meglio non sappia . E non solo per compiacerlo o per continuare a farlo scorrazzare felice in quell'eterno giardino d'infanzia che gli abbiamo costruito intorno; o ancora, per un atavico e sincero timore di ferire l'altro e di gravarlo di responsabilità che siamo abituate a caricarci sulle spalle. C'è qualcosa di più in questo piacere della parola " separata" e monosessuale sull'amore. Perché non confessare che quest' attitudine femminile al discorso sull'uomo - e in assenza dell' uomo - è animata da un residuo di disprezzo e diffidenza , oscuramente confusi con la paura verso chi consideriamo irrimediabilmente straniero e usurpatore, tirannico occupante e diverso, più potente ma solo perché più forte? Così che questa parola d'amore, che solo tra donne si fa tanto intima e autentica, suggerisce l'ombra, la separatezza, ma anche la segretezza. Fino a scivolare - nel peggiore dei casi verso l'inganno, l'intrigo. Separatezza, segretezza, ombra per infinite generazioni di donne hanno coinciso con l' apartheid del nostro sesso , che però ora è stato combattuto e in gran parte cancellato,superato (...). Iaia Caputo da Di che cosa parlano le donne ( quando parlano d'amore )
(...) Tuttavia, ancora tra donne - e solo tra donne - ci si dice ciò che l'altro non deve sapere o non saprà mai , o almeno, in quel momento. Perchè sarebbe inutile, perché ci penseremo noi, perché riteniamo di aver visto meglio e più lontano di lui, e così toccherà a noi fare in modo che talune cose accadano, che altre si realizzino, oppure cambino. Temiamo ancora gli uomini come stranieri? Li disprezziamo perché irrimediabilmente diversi, occupanti, intrusi? O quello che ancora teniamo per noi è l'inscalfibile convinzione di sapere di più e meglio degli uomini le cose dell'amore? E che cosa ci restituirebbe questo primato: un'attitudine, una superiore sapienza, una maggiore familiarità con gli affanni umani o con il senso più ultimo e autentico dell'esistenza? " Siamo le curatrici della specie umana", mi aveva detto un' amica per spiegare il talento a fare nostri gli affanni e i tormenti, e a trasformare l'altro in una risposta a una domanda di senso che riguarda noi stesse. Ma in questa competenza stanno - come le due facce di un Giano bifronte - subalternità e dominio, forza e debolezza, sapienza e dannazione. Se spostarsi da questa posizione di conflitto e contrapposizione significa rinunciare a stare con i piedi ben piantati nel centro della vita, allora ci resto: non ci rinuncio per avere in cambio una più lieve consapevolezza di me, una più superficiale e distratta cognizione del senso da attribuire alla mia vita. Ma vorrei - quello sì - spostarmi anche rinunciando a molto del mio spazio, se questo potesse far posto a un uomo. Perché vorrei condividere una posizione perdendone - qualora poi vi sia - anche il " privilegio"; vorrei che da quell'osservatorio ci fosse posto per entrambi, maschi e femmine. Perché se è vero che le donne riescono a " conoscere il mondo attraverso l'amore ", da tempo ormai gli uomini hanno smesso di coincidere con il mondo. (...) Iaia Caputo Di che cosa parlano le donne ( quando parlano d'amore )
(...) Il mondo interiore di Kikì Dimulà, che parla il linguaggio degli oggetti, del quotidiano e delle sue presenze più umili - la polvere, gli occhiali, le fotografie, il giornale, il cognac,persino una forma grammaticale - si incontra poi con realtà intangibili, inesprimibili.Ed è proprio da questo incontro, ora sorprendente ora stridente, che nasce la sua poesia e l'emozione profonda dei suoi testi. I protagonisti apparenti della sua opera non sono che i segni, le occasioni per entrare nell'altra dimensione: quella dell' assurdo, talora del paradosso, e comunque sempre in una realtà interiore dove a valere sono altre regole, diverse da quelle del mondo esterno. E questo discorso vale anche su un piano linguistico.La sintassi della sua poesia è una sintassi che non segue le regole codificate della lingua ufficiale, ma le regole dettate dal suo mondo interiore, risultando dunque una lingua " trasgressiva" a livello tanto lessicale quanto grammaticale e sintattico. Con coraggio e creatività, Kikì Dimulà sfida continuamente le regole grammaticali in nome di quelle non scritte della sua estetica. I suoi versi sembrano così minacciare le radici stesse della lingua, ma per restituirla rinnovata in una sintassi che sia più consona ad esprimere le verità sottili del suo immaginario interiore. Gli aggettivi diventano verbi; i sostantivi avverbi; gli avverbi sostantivi in un'apparente anarchia, eppure profonda armonia delle parole, con l'uso di metafore che stupiscono e rapiscono allo stesso modo. (...) Paola Maria Minucci da L' adolescenza dell'oblio
Voglio avere la coscienza in pace di aver sofferto per tutto...
LA " O " DISGIUNTIVA Mi ha chiuso in casa la pioggia e ora dipendo dalle gocce. Ma come sapere se è pioggia o lacrime dal cielo profondo di un ricordo? Sono troppo cresciuta per dare senza riserve un nome ai fenomeni : questa è pioggia e queste sono lacrime. Rimango asciutta tra due possibilità: pioggia o lacrime, e tra tante ambigue realtà: pioggia o lacrime, amore o modo di crescere, tu o piccola oscillante ombra dell'ultima foglia che saluta. Ogni ultima cosa, la chiamo ultima senza riserve. Sono troppo cresciuta perché questo sia motivo di lacrime. Lacrime o pioggia, come saperlo? E continuo a dipendere dalle gocce. E sono troppo cresciuta per aspettare una misura quando piove e un'altra quando non piove. Gocce per tutto. Gocce di pioggia o lacrime. Dagli occhi di un ricordo o dai miei. Io o il ricordo, chi lo sa. Sono troppo cresciuta per distinguere i tempi. Pioggia o lacrime. Tu o piccola oscillante ombra dell'ultima foglia che saluta. §§§§§§§§§§§§§§§§§§§ CRAVATTA NERA Innaffia tu la pianta e lasciami piangere. Scrivi però le ragioni, forse devo altro dolore. Voglio avere la coscienza in pace di avere sofferto per tutto. Scrivi che piango per uno specchio. Un tempo oggetto ornamentale, oggi oracolo. Per la brusca buonanotte che danno le poche possibilità e si dileguano. Scrivi che piango per la tua finestra, chiusa e senza saluti, melanconica per nascita. Per gli uccelli dell'ultimo decennio. Il loro terrore delle antenne televisive. Per il loro adattarsi e svolazzare tra questi alberi di ferro. Impararono a cantare su rami di ferro. Scrivi. Per questo sabato sera sepolto tra due cipressi nella chiesa di campagna. Per la luna in lutto - indossa una cravatta nera nuvola, scrivi che piange. Piango perché mi hai chiesto se ho visto la luna piena. No, non ho visto niente di pieno, non ho vissuto. Piango perché i ragazzi portano lo zaino come una conoscenza già completa, e non entrano nel tenero rassicurare delle ore ancora acerbe e non giocano. Scrivi che piango per le madri. Le mie più antiche madri. Belle ed esili, amanti delle finestre, arpiste della vendetta che la morte ha colto impreparate e sono longeve materne nelle fotografie del salotto e nei ricami. Piango perché hanno accesole luci e la domenica gatta raggomitolata sulla mia finestra. La paura si veste a festa e aspetta. Scrivi. Che piango per le bufere, il poco cibo, per tutto il Poco, per i terremoti senza preavviso. piango perché va sprecata la notizia che mi hai dato della prima farfalla vista ieri. Piango perché non fa notizia l'effimero. Scrivi. Piango perché la sorte si è chiusa in casa, la dilazione è arrivata al boia, la borraccia è arrivata nel deserto, la gioventù nella fotografia. Piango perché chissà chi chiuderà dei miei giorni gli occhi. Innaffia tu la pianta e lasciami piangere perché... §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§ TERRA IN MAIUSCOLA Ultimamente - per leggere - per riconoscere, per conoscere, mi tiro un po' indietro e spingo più lontano quello che devo vedere. Subentra una nuova distanza tra me e ciò che miro. Altrimenti non vedo. Voglio dire che la vista per unirsi con ciò che vuole deve pre- vivere una separazione. Altrimenti non vedo. E' naturale, dicono i medici. Qualche grado di presbiopia, qualche gradazione di stanchezza per l'età il duro lavoro nelle miniere dell'indistinto. Devo mettermi occhiali da vicino. Davvero naturale, questo. Dovermi mettere gli occhiali per poter vedere l'evidente. Ciò che è evidente lo vedo, vedo bene dove vanno a parare le cose, mi vedo affrontarle a mani cieche e con pianti legati mi vedo pre-vivere una separazione. Se cade la pioggia con la maiuscola la vedo, se cade con la minuscola mi piace. Mi vedo cadere con la minuscola. Quel che ho visto non l'ho visto soltanto con i miei occhi. Anche la difficoltà è una vista. Le cose capitali sono riuscita comunque a leggerle. Con il sentimento ho visto segni e prodigi. E mi metterò gli occhiali per leggere chiaramente la terra maiuscola che mi ingoierà, cadrò con le minuscole cadrò con le maiuscole? Pensa, mettermi occhiali da vicino! Avvicinare con gli occhiali ciò che è vicino. Io che non l'ho avvicinato né con gli occhi né con i miei pezzi. Eh no! Mettermi gli occhiali per vedere i miei pezzi. Kikì Dimulà da L' adolescenza dell'oblio
Tu peux venir dans mes bras pour me dire que tu m'aimes... ( senza amore...il sole non esiste senza amore...)
Ti amo come un livido di foglie sul corpo neanche il bosco contiene tanti rami quante braccia la nostra giostra amore il sole ci vede e ci sostiene su un punto solo quello che muove gli occhi per non andare via dal tronco Ama me come si ama la potatura selvatica del faro senza sarcasmi, senza seme nei granai con la fame del corvo al seno se rimango nel fuoco senza muovere lo sciame e vivo il volto, i getti negati nell'alveare o non amarmi affatto! Amo te che vieni a prendermi dal fondo delle braccia a braccia aperte e incidi una nota con la bocca stretta all'aurora non riesco più a sentire la nota il tempo che corrode la lingua di vetro l'ascesa del sangue del frumento non avevi un piano per la potatura dei tigli una fiamma in più per l'inverno ci incontreremo prediletti nei fumetti d'alabastro fino a sentire l'eloquenza della pietra fino a smettere di essere pietra quando passerà l'allodola di vento Ama me, amo te, ama me cielo e pietra e carne astemia di neve, di millenni vino di albero infante Amo te ama me amo te e ci pensi tu ad accompagnare la mia bocca non saranno mai confusi i lacci sapranno annodare le zolle le ruote della macchina e la mia bocca sulla tua onda in due facciamo un mare e una nave e una stagione di naufraghi ci mettiamo qualcosa addosso quando piove solo una bocca in due può bastarci il cambio di ruota, i fiori che vengono nutrendo l'acqua profonda e nel punto del ritorno l' àncora alla gola. Anila Hanxhari Inedito
(...) Le donne protagoniste di questo libro sono allieve della prima generazione e sono state scelte perché hanno vissuto anche tutta la vita accanto a Jung. Tratterò così di Toni Wolff ed Emma Rauschenbach Jung, di Barbara Hannah e Marie Louise von Franz, di Aniela Jaffé e Risvak Scharf Kluger, di Liliane Frey Rohn e Jolande Jacobi. Sono tutte donne provenienti da famiglie agiate, spesso aristocratiche, appartenenti comunque all' élite culturale della società degli inizi del 900, portatrici di sofferenza e di conflitti e che vedono nell'analisi una possibilità nuova di comprensione e di raggiungimento di senso, oltre che una possibilità di emancipazione.Sia in campo freudiano che in campo junghiano troviamo donne di grande valore che hanno dato un contributo sostanziale allo sviluppo della psicologia del profondo come pazienti e come allieve e analiste. Nel corso della mia ricerca ho potuto constatare tuttavia come esse siano state tutte molto reticenti nel raccontare la propria vita e i rapporti significativi che l'hanno contrassegnata ( tranne la von Franz ) e tutte caratterizzate da una profonda introversione. Perciò la biografia vera e propria rimarrà sullo sfondo e ciò vale anche per le opere. Di tutte ho cercato però di far emergere le peculiarità della loro identità femminile, là dove mi sembrava che si estrinsecasse meglio. Inoltre mi sono proposta di non parlare di quelle opere ove veniva esposto soltanto il pensiero di Jung, impresa assai difficile questa, in quanto i riferimenti al Maestro sono sempre stati frequenti e inevitabili. (...) Nadia Neri da Oltre l'ombra ( Donne intorno a Jung )