Desidererai la lingua degli angeli, una luce fissa e non altro dolore…
Gli algoritmi complessi del gioco, modelli di abili matematiche e avidità, sono per pochi. Un vuoto fino a mascherare la partita vera: la gestione del rischio contro lo spingere oltre, togliere il freno minimizzare. " Lo fanno tutti. Noi chi siamo? A fermare il tempo, le storie, sono uomini senza nome e senza nostalgie, simili a noi che ci crediamo migliori. Abbiamo tutti vicino cose fredde, le amiamo". Come tutti ci facciamo lontani. *** Oggi che narrare diventa acciaio, metrica di un XXV aprile visto dal monte sul mare, non ci sei. Notizie dall'ultimo grido dopo l'alba fredda. Avere abbastanza cuore. La neve dopo fu una strategia possibile, un privato conteggio degli angeli prima del nostro battesimo del fuoco: uscire nello spazio per essere colpiti, per comprendere nella carne l'esatta presenza di tutto quando è inizio. Il resto è questa vita: Caterina ha sognato i draghi stanotte e racconta ieri come fosse un quadro e noi tutti dipinti in aprile siamo questa famiglia, la quota di desiderio che abbiamo dissotterrato. E anche tu, da dentro l'idea d'innocenza che ho sentito, risponderai dell'unica decisiva sentenza domestica: a chi siamo mancati? *** Non è vero che l'esperienza del dolore è uguale. Resta alla fine del giorno, lungo il crinale della sera, un discorso aperto, qualcosa che non si può dire. Lo sappiamo : chi sa come guarire sa anche uccidere. Ancora: ciò che è universale è il vuoto e non il senso. Verità che valgono per tutti. E su questo i ministri della consolazione inventeranno anche per te il linguaggio dell'esperienza del dolore e del male; appresteranno il codice entro cui leggerai l'esperienza di sofferenza che ti aspetta. Ecco, il vero punto omega è questo : quando mi vedrai morire sarai unica, separata dagli altri, non sostituibile. Ci allontaneremo anche per questo, in quel momento. Saremo una scommessa, punti che si cercano, come lontani pianeti imprudenti, soli e persi nel desiderio di solcare i cieli. *** Le scatole sono azzurre e verdi e bianche, pure e semplici nell'ordine in cui le ho disposte, sul tavolo scuro, tua madre. L'ossigeno sibila ogni tanto. Fuori quella rete ordinata di strade e terre, di canneti lungo i canali e il movimento dell'erba al vento marino, e le foglie degli alberi da frutta. In un aumento del buio chiederai di lei, anche tu stanca e debole per le visite degli sconosciuti, per la natura e la vita che si organizzano in nuove forme. Anche tu sul flusso del mondo desidererai la lingua degli angeli, una luce fissa, e non altro dolore. *** La mia mano la mia vita alla tua si salda perché la poesia possa dire più della prosa le costellazioni che si fissano violente nelle nostre vite, nelle menti, quando ti muovi ed esisti nell'ansia prima dell'attacco. Un'estate di molti decenni dopo su quella roccia come fosse una il prolungamento dell'altra, una resistenza dopo la resistenza, l'avvenimento del tuo futuro. Tu - il grande innocente - sei qua. Profondo e ricco di tracce, sei quello che penso essere una vita, cumulo o stratificazione. Eccomi: ho avuto le età, i giorni come un figlio lungo il fiume - d'estate qualche bagno, una bicicletta. E sono stato il senso di vivere per niente, il tempo diviso, l'assenza e il punto di pressione che regge un mondo. Vedo, sotto la cava, senza averlo visto mai, il sentiero prima dell'addio. Qualcosa cede: le tue grida adesso sono le mie, le ferite, quella luce che passa fra le cellule buie. Sono anch'io un corpo che muore d'estate nel sangue disperso. Un figlio recuperato da un padre a fine agosto. La mano di carta pecora, il viso. Sono davvero io dentro le storie sentite, un pianto, un lamento grande: non è possibile tenere vivi tutti i significati. La memoria è non ricordare tutto quello che vorrei. Accade anche per le cose che più amiamo. Lo so. Non importa: sopra i nostri versi sulla morte - a sera - una salute coi monti collabora, ci tiene, e siamo quello che accolti ai figli le stelle dicono. Gabriel Del Sarto da Il grande innocente
Questo libro è una lunga riflessione sul tema dell'ospitalità. Spinto dall'urgenza di affrontare i fenomeni dell'immigrazione e dell'integrazione - di quotidiana e spesso drammatica attualità - Enzo Bianchi cerca nell' Antico e nel Nuovo Testamento risposte complesse e non condizionate da facili pregiudizi. E' etico - infatti - accogliere qualcuno senza potergli fornire una casa, cibo, vestiti, lavoro, ma soprattutto una soggettività e una dignità nel nostro corpo sociale? Partendo dal presupposto che l'accoglienza è altra cosa dal soccorso in caso di emergenza, e ricordando che i cristiani sono stati nella storia " stranieri e pellegrini "che hanno dovuto subire la diffidenza, l'ostilità e addirittura la persecuzione, l'autore - con grande sensibilità e profonda conoscenza dei testi biblici, analizza la condizione dello straniero per riscoprire le origini dell'ospitalità al pellegrino, dell'apertura al viandante, che sono al centro dell'etica cristiana. Lo straniero è - sull'esempio del bellissimo episodio biblico di Abramo alle Querce di Mamre - una figura da accogliere ma anche - come è stato il popolo di Israele in Egitto- una figura capace di metterci in discussione, un'occasione per interrogarci su noi stessi, perché fare spazio all'altro significa arricchire la propria identità, aprirla ad orizzonti nuovi mettere le ali alle nostre radici. ( f )
" Colui che tu accogli, sia per te un dio". (Tatirya Upanishad )
(..)Oggi, praticare l'ospitalità nei modi in uso presso le popolazioni seminomadiche del Medioriente,di cui anche l'episodio di Abramo a Mamre è testimonianza, appare sempre più difficile: un'antica consuetudine, presente in tutte le culture come dovere sacro, si sta smarrendo soprattutto in quella che chiamiamo la civiltà " occidentale". Le cause di tale fenomeno sono certamente molteplici. Il primo luogo, il declino della prassi dell'ospitalità è provocato dal carattere consumistico di questa società. Il mercato di oggi si è impadronito anche dell'ospitalità, strappandola alla gratuità e facendone un affare commerciale, un business: le strutture alberghiere e le diverse categorie di alberghi e hotel, di fatto sono accessibili solo a chi ha possibilità economiche. Se non si possiede una carta di credito non si può prenotare una stanza d'albergo. E a pochi passi dagli alberghi più o meno costosi, sulle panchine dei parchi o sui marciapiedi delle strade, si trovano sempre più folte schiere dei " senza casa", che si riparano con un giornale o un cartone. Bisogna inoltre mettere in campo la mutata tipologia della presenza degli stranieri nelle nostre società. Una presenza non più sporadica o stagionale, ma consistente, stabile e - a differenza dei flussi migratori conosciuti a partire dal XIX secolo - " plurale": gli stranieri giungono tra di noi da paesi, culture e mondi religiosi distanti da noi e tra di loro. Di conseguenza, molti degli " autoctoni" si sentono minacciati nella loro identità culturale e religiosa, oltre che in termini di occupazione e di sicurezza, così che gli stranieri finiscono con l'incutere paura. La paura di chi è diverso e il ripudio di forme culturali, morali, religiose e sociali da noi finiscono per spingerci sempre più velocemente verso la sfera del " privato", l'isolamento, la chiusura all'altro, magari mascherati da custodia della propria identità . (…) Enzo Bianchi da Ero straniero e mi avete ospitato
(…)Va anche riconosciuto che,poco per volta,questo atteggiamento di diffidenza e di difesa tende ad inquinare tutti i nostri rapporti, al punto che finiamo per non praticare più l'ospitalità neppure nei confronti di chi possiamo definire-letteralmente -il prossimo, cioè chi è " più vicino", chi vive accanto a noi condividendo la stessa lingua e la stessa cultura.Così le nostre case assomigliano sempre più a fortezze protette da serrature, porte, cancelli, sistemi di allarme, telecamere, recinti e muri: siamo diventati progressivamente succubi di una mentalità che si restringe e si chiude a ciò che appare come " altro", sconosciuto, nuovo, diverso. Finiamo allora per pensare l'ospitalità soltanto come indirizzata a coloro che noi invitiamo: ma l'invitato non è un ospite, né le attenzione usate verso di lui sono ospitalità… L'altro, il vero altro- infatti-non è colui che scegliamo di invitare in casa nostra , forse anche con il retropensiero di essere poi a nostra volta invitati, bensì colui che emerge -non scelto - davanti a noi: è colui che giunge a noi portato semplicemente dall' accadere degli eventi e dalla trama intessuta del nostro vivere, perché l'ospitalità è " crocevia di cammini ". L'altro è colui che sta davanti a noi come una presenza che chiede di essere accolta nella sua irriducibile diversità; poco importa se appartiene a un'altra etnia, un'altra fede, un'altra cultura: è un essere umano e questo deve bastare affinché noi lo accogliamo. In altre parole, perché dare ospitalità ? Perché si è uomini, per divenire uomini, per umanizzare la nostra umanità. O si entra nella consapevolezza che ciascuno di noi, in quanto venuto al mondo, è lui stesso ospite dell'umano, oppure l' ospitalità rischia di restare tra i doveri da adempiere: sarà magari tra i gesti significativi a livello etico, ma si situerà su un piano fondamentalmente estrinseco e non diverrà un rispondere alla vocazione profonda dell'uomo, un realizzare la propria umanità accogliendo l'umanità dell'altro. (…) Enzo Bianchi da Ero straniero e mi avete ospitato
(…)Il considerarsi ospiti dell'umano che è in noi, ospiti e non padroni, può invece aiutarci ad avere cura dell'umano che è in noi e negli altri,a uscire dalla perversa indifferenza e dal rifiuto della compassione che , sola, può condurci a comprometterci con l'altro nel suo bisogno. Il povero, il senza tetto, il girovago, lo straniero, il barbone,colui la cui umanità è umiliata dal peso delle privazioni, dei rifiuti e dell'abbandono, del disinteresse e dell'estraneità, incomincia ad essere accolto quando io incomincio a sentire come mia la sua umiliazione e la sua vergogna, quando comprendo che la mortificazione della sua umanità è la mia stessa mortificazione. Allora, senza inutili e vigliacchi sensi di colpa e senza ipocriti buoni sentimenti, può iniziare la relazione di ospitalità che mi porta a fare tutto ciò che è nelle mie possibilità per l'altro. Ma dev'essere chiaro che l'ospitalità umanizza innanzitutto colui che la esercita : " Non ha ancora incominciato ad essere un vero uomo chi non ha vissuto la pietà per l'umanità ferita e svilita nell'altro" ( Don Pierangelo Sequeri " Scriveva Jean Daniélou ( teologo e cardinale francese, n.d.r ): " La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico ( hostìs ) è divenuto ospite ( hospes ); il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo…" In effetti, il modo di concepire e vivere l'ospitalità è relativo al grado di civiltà di un popolo. Ospitare è uscire dalla logica dell'inimicizia, è fare del potenziale nemico un ospite. Dovremmo imparare a pensare il grado di civiltà in riferimento al livello dell'umanità e al rispetto dell'umanità dell'uomo, non in termini di tecnologia e di sviluppo. Nel praticare l'ospitalità si fà dunque più che mai opera di umanizzazione, come già aveva compreso con molta intelligenza Benedetto, il quale, nella sua Regola chiede che il monaco mostri all'ospite " ogni umanità ", mostri dunque ciò che è proprio degli uomini. Ma come praticare l'ospitalità? Proprio l'esperienza della vita monastica che tanto insiste su questa pratica fino a farne la sua diakonia più nobile e sempre all'opera, e ben conosce che ospitare significa creare uno spazio per l'altro, dare tempo all'altro, può offrirci una deontologia dell'ospitalità (…) Enzo Bianchi da Ero straniero e mi avete ospitato
Nessuna donna saprà cullarti come io ti celebro nei miei versi… Sì, li amavo quei convegni notturni, i bicchieri ghiacciati su un piccolo tavolo, il vapore del caffè sottile, profumato, il torbido caldo d'inverno, del rosso camino, l'acre allegria dello scherzo letterario e dell'amico il primo sguardo, angoscioso e smarrito. *** Lascio la casa bianca e il muto giardino. Deserta e luminosa mi sarà la vita. Nessuna donna saprà cullarti come io ti celebro nei miei versi: non scordare la tua cara amica nell' Eden che hai creato per i suoi occhi, per me che spaccio una merce rarissima e vendo il tuo tenerissimo amore. *** Ho smesso di sorridere, le labbra sono gelate, ad una sola speranza segue più di una canzone. Senza colpa cederò il canto al riso e alla profanazione, ché al colmo del dolore per l'anima è il silenzio d'amore. *** Ho davanti la via isoscele della sera. Già ieri innamorato supplicava " Non dimenticarmi". E adesso solamente i venti e i gridi dei pastori e i cedri agitati sopra fresche fontane. *** C'è nell'intimità degli uomini un confine che né l'amore né la passione possono osare: le labbra si fondono nel terribile silenzio e il cuore si spezza per amore. Anche l'amicizia qui è impotente, e gli anni pieni di felicità alta infiammata, quando l'anima è libera e distratta dal lento languore della voluttà. Pazzo è colui che vi si appresta, raggiungerlo è morire d'angoscia… Ora puoi capire perché non batte il mio cuore sotto la tua mano. Anna Achmatova da Lo stormo bianco
" Sdegno il verso che suona e che non crea…" (U.Foscolo ) ALLA SERA Forse perché della fatal quiete tu sei l'imago a me sì cara vieni o sera! E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni, e quando dal nevoso aere inquiete tenebre e lunghe all'universo meni sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch'entro mi rugge. *** DAL CARME DEI SEPOLCRI ( Esordio, vv 1-40 ) All'ombra de' cipressi e dentro l'urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?Ove più il Sole per me alla terra non fecondi questa bella d'erbe famiglia e d'animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l'ore future, né da te, dolce amico, udrò più il verso e la mesta armonia che lo governa, né più nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini Muse e dell'amore, unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro a' dì perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte? Vero è ben Pindemonte! Anche la Speme, Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve tutte cose l'obblio nella sua notte; e una forza operosa le affatica di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe e l'estremo sembiante e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo. Ma perché pria del tempo a sé il mortale invidierà l'illusion che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l'armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de' suoi? Celeste è questa corrispondenza d'amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l'animo estinto e l'estinto con noi, se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva, nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall'insultar de' nembi e dal profano piede del vulgo,e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica le ceneri di molle ombri consoli. *** IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, mi vedrai seduto su la tua pietra, fratel mio, gemendo il fior de' tuoi gentili anni caduto: la madre or sol, suo dì tardo traendo, parla di me col tuo cenere muto: ma io deluse a voi le palme tendo; e se da lunge i miei tetti saluto, sento gli avversi Numi, e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta; e prego anch'io nel tuo porto quiete: questo di tanta speme oggi mi resta! Straniere genti, l'ossa mia rendete allora al petto della madre mesta. *** CANTO DI CASSANDRA ( Conclusione, vv 272-295 ) E voi, palme e cipressi che le nuore piantan di Priamo, e crescerete ahi presto di vedovil lagrime innaffiati, proteggete i miei padri : e chi la scure asterrà pio dalle devote frondi men si dorrà di consanguinei lutti e santamente toccherà l'altare. Proteggete i miei padri. Un dì vedrete mendico un cieco errar sotto le vostre antichissime ombre, e brancolando penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne, e interrogarle. Gemeranno gli antri secreti, e tutta narrerà la tomba Ilio raso due volte e due volte risorto splendidamente su le mute vie per far più bello l'ultimo trofeo ai fatali Pelìdi. Il sacro vate, placando quelle afflitte alme col canto, i prenci argivi eternerà per quante abbraccia terre il gran padre Oceàno. E tu onore di pianti- Ettore - avrai, ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finchè il Sole risplenderà su le sciagure umane. Ugo Foscolo da Poesie
"Sklovskij diceva che era un campione; Jakobson diceva il più grande poeta del Novecento; Tynjanov diceva una direzione; Markov diceva il Lenin del Futurismo russo; Ripellino diceva il poeta del futuro; e avevano ragione - secondo me - tutti; però avevano torto anche - secondo me - e avevano torto perché - secondo me - Chlebnikov è molto di più." ( Paolo Nori ). Velimir Chlebnikov morì a 37 anni ( nel 1922 ) a causa di una paralisi conseguente ad uno stato di inedia e malnutrizione. ( Pace a te !frida ) Poco mi serve. Una crosta di pane, un ditale di latte, e questo cielo e queste nuvole. *** Gli uomini, quando amano, fabbricando lunghi sguardi e mandando lunghi sospiri. Le bestie, quando amano, riempiendosi gli occhi di foschia e fabbricando morsi di schiuma. I soli, quando amano, coprendo le notti con un tessuto di terre e incedendo a passi di danza verso l'amico. Gli dei, quando amano, abbracciando per intero il fremito dell'universo, come Puskin - la fiamma dell'amore per la cameriera Volkonskij. *** Russia, sei tutta un bacio nel gelo! Azzurreggiano strade notturne. In un lampo azzurro sono fuse le labbra, azzurreggiano insieme le due. Di notte un lampo vola, a volte, dalla carezza di un paio di labbra, e d'un tratto - agile - aggira le pellicce, azzurreggiando, lampo senza sensi. E la notte brilla, intelligente e nera. *** La libertà arriva nuda, gettando nel cuore dei fiori, e noi, andando al passo con lei, al cielo diamo del tu. Noi, guerrieri, con coraggio picchiamo con il braccio su scudi severi: governo del popolo sia, e sia sempre - per sempre - qui, là. Alle finestre vergini cantino in mezzo a canti sull'unico cammino, del suddito fedele del Sole, il popolo che si è liberato. *** Oh, se i vostri occhi nereggiassero, come gli stinchi degli stivali, oh, se la vostra bocca fosse cantilenante come la mucca che chiama il vitello, oh, se con le vostre trecce ci si fosse potuti impiccare senza chinare la testa! *** Brutali vecchi stracci di capelli, un campo nero: la fronte. Dei ceppi fradici in una palude: le labbra, mammelle di capra selvatica : la barba, corda da marinai: i baffi, fanciulla di neve con una scopa nera: i denti, notti insonni gli occhi azzurri come buchi in una vecchia coperta. *** Ma io vengo da te, in Tibet… Mi cerco una casetta, là, il tetto coperto di cielo, cinte di vento le pareti, il soffitto che guarda le erbe, per terra dei fiori, verdi. Là, calmerò le mie ossa. Velimir Chlebnikov da 47 poesie facili e una difficile
Crede che per vivere si debba aspettare l'oltre futuro dei morti… Si insinua il sospetto che la loro soluzione sia la nostra rovina. Così si disfa il fuoco. Un mulinello assorbirà ogni cosa persino i baci della bocca. E il labirinto affonderà nella siepe stessa. Così i pesci saranno ferite dell'acqua, e sarà il rumore delle foglie tra le foglie come il sapore dell'aria nel caffè, del tiepido poltrire nel letto, ormai sfuocato. Mentre si consumano i denti. Eh, sì ci pentiremo di ogni smorfia della bocca, persino dei sorrisi disarmanti. Così dice allontanandosi: " A volte mi aiuta pensare in decime di ottave, o guardare sul muro le macchie di muffa che l'intonaco trasforma in figure enigmatiche. *** Un gesto di zafferano appoggi appena sulle labbra, un'attitudine senza redenzione. Mentre un urlo sale dal profondo scuotendo la terra cava, canaglia come diavolo o divorzio. E' l'anima. Non so bene spiegarti, ma se guardi per terra vedrai queste vene muoversi come radici, qui dove le lettere si sciolgono per disegnare il limite del bosco, lì dove abbandonammo l'anima al silenzio. *** Incomincia in un posto di mare o in mezzo a una pianura stretta ai laghi, crede che per vivere si debba aspettare l'anno prossimo, l'oltre futuro dei morti. Ci sono muffe nere nella testa. Mentre la salute è un mistero sconcio, meraviglioso e finalmente, senza futuro. Alberto Pellegatta in Nuovissima Poesia Italiana
Il mio male era legato alla visione. (…) L'estrema, e per me innaturale, calma che sento è forse dovuta al fatto che è come se avessi chiuso un cerchio. O più realisticamente, come nel mito della caverna di Platone, per quarant'anni sono stato prigioniero della mia opinione, per quarant'anni ho creduto passivamente non all'immagine diretta e sensibile di mio padre, ma alla sua ombra proiettata sulla parete della mia caverna. Io ho vissuto in un mondo illusorio in cui ho ricostruito l'idea di un padre inesistente, congelato in un tempo remoto immutabile. Io paragono il mondo che ho edificato attorno a lui " alla dimora della prigione e la luce del fuoco che vi è dentro al potere del sole". Allora - penso - il mio male è nato nella caverna. E' nato dalla visione, anziché delle cose reali, delle loro ombre. Io sono come il prigioniero di Platone, incatenato fin dall'infanzia, che non avendo esperienza del mondo esterno è portato a interpretare le ombre " parlanti". Io, per quarant'anni, dentro di me, ho parlato con l'ombra di mio padre, un'ombra maligna e austera, traditrice, abdicante; ho immaginato mio padre immerso in una vita mille volte migliore della mia, che mi guardava sprezzante, e la sua ombra mi ha condotto quasi alla follia. Io, nella mia caverna, non ho visto altro che questa proiezione. Il resto del mondo non è mai esistito ai miei occhi. Poiché ciò che credevo essere il resto del mondo, in realtà non era altro che l'alone soffuso dell' ombra parlante di mio padre. Il mio male non è quindi diretta conseguenza delle azioni di mio padre, ma effetto del preciso atto di volontà che ho compiuto da bambino:rinchiudermi nella caverna per vivere in contemplazione di quell'unica ombra immensa. E allora nulla è veramente mai esistito nei termini che ho creduto, neppure le persone a me più care. E così, dunque, la calma che ora sento non è altro che stupefazione, è l'attonita meraviglia che provo nella diretta visione del mondo, delle persone che amo, che io vedo - ora - per la prima volta nella loro oggettiva realtà. Adesso io nella caverna mi sono finalmente voltato, mi sono liberato delle catene ho la faccia rivolta verso l'uscita; i miei occhi sono abbagliati dalla luce del sole, le forme dei miei cari mi sembrano meno reali delle ombre alle quali ero abituato, e la mia calma è dovuta alla contemplazione, al tempo che mi sono dato per abituarmi alla nuova realtà. Il mio male era legato alla visione. (…) Andrea Pomella da L'uomo che trema
" Senza amore di sé, neppure l'amore per gli altri è possibile :l'odio per se stessi è esattamente identico al flagrante egoismo e conduce alla fine al medesimo - crudele - isolamento, alla medesima disperazione " . ( H. Hesse ) (…) Incontrare dopo così tanto tempo una persona che si è conosciuta a fondo, con cui si è convissuto, e con la quale ci si è infine persi di vista al punto da averla data per morta, equivale a ritrovarsi al cospetto di un fantasma. E' un evento che ha del soprannaturale. Ma è anche un'esperienza culminante. Poiché non c'è niente - credo - che possa dare luce all'esistenza umana, illuminarla in tutto il suo ampio spettro, ponendoci davanti al suo stesso mistero- che è poi il mistero di noi uomini , esseri mutanti in continuo movimento, alterati dal tempo e dagli eventi, dalla somma spaventosa dei giorni - non c'è niente più di questo - penso - che riesca a rendere l'idea di quel che sia, in fondo a tutto, la cosa che chiamiamo vita . (…) Andrea Pomella da L'uomo che trema
" L'indifferenza è più colpevole della violenza stessa: è l'apatia morale di chi si volta dall'altra parte " ( L. Segre )
(…) E' questione di pochi anni, poi non ci saranno più testimoni in vita della Shoah. E peraltro già oggi il loro racconto, la storia della loro esperienza nel giro infernale più raccapricciante della storia contemporanea, suscita una crescente indifferenza, come se fosse l'ennesima riproposizione di una vicenda già archiviata. E' quasi inevitabile che sia così, perché la memoria ormai si focalizza solo all'interno del perimetro di Auschwitz, il punto terminale della Soluzione Finale. E in questo modo, la più spaventosa politica sistematica di persecuzione che il mondo abbia conosciuto, perde il suo contesto e diviene una sorta di questione privata tra due gruppi estranei al mondo di oggi. Non ci sono quasi più i nazisti che perseguitavano, rastrellavano e mandavano a morte di Ebrei, e tra poco non ci saranno neanche più i pochi superstiti della loro macchina di genocidio. I primi misero in atto la Shoah, ai secondi è toccato l'ulteriore scempio di rievocarla. Così, un'immensa tragedia storica, resa possibile da una rete decisionale di complicità e di omertà che copriva mezza Europa, è stata trasformata nel racconto di chi è riuscito a tornare, e nel silenzio totale e definitivo di tutti gli altri testimoni rimasti in vita: i milioni di tedeschi, italiani, olandesi, francesi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni e slavi che contribuirono attivamente - e spesso con uno zelo superiore ai loro orchestratori - all'opera di isolamento, identificazione, segregazione, rastrellamento e invio ai campi di sterminio degli ebrei, ma anche degli zingari, degli omosessuali e degli oppositori politici. Ogni anno, con la dolente routine ipocrita di chi concepisce il Giorno della Memoria come una data rituale, si chiama il sopravvissuto di turno a raccontare l'orrore alle scolaresche, si riproietta Schindler's List o La vita è bella, e la coscienza civile pare salva. (…) Enrico Mentana ( Introduzione a ) La memoria rende liberi
(…) Lo è davvero? No di certo. Paraossalmente l'orrore assoluto dell' Olocausto copre, con il sangue e il fumo delle ciminiere, la vergogna assoluta della discriminazione progressiva degli ebrei d' Europa, cominciata ben prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e quindi non relativizzabile come un aspetto tra gli altri dell'inumanità di quel conflitto totale. E allora vale la pena rompere il rituale, fermare la recita,buttare la foto del nazista in divisa nera con rune e cane lupo, e dell' ebreo con cappellaccio,cernecchi, barba incolta e palandrana. Non è una storia di uniformi e palandrane, non è una storia di guerra, non è una storia di diversi. Nell' Italia fascista - e non solo in Italia - persecutori e perseguitati erano stati parte della stessa società,vestivano allo stesso modo e spesso la pensavano allo stesso modo sul regime. Eppure venne un giorno in cui i primi decisero che i secondi non avrebbero potuto più insegnare o imparare, lavorare o possedere, fare impresa o risparmiare, per via della fede dei loro genitori, anche se persa o non tramandata. Erano semplicemente una stirpe, una discendenza da emarginare. Arrivarono poi direttamente, passando da alleati e occupandi, coloro che erano stati gli ispiratori di quella politica di discriminazione per trasformarla in annientamento.E in tanti italiani chiusero gli occhi, si voltarono dall'altra parte o aiutarono attivamente: l'orrore vero per me è lì, al primo metro del cammino per i campi. (…) Enrico Mentana ( Introduzione a ) La memoria rende liberi
(…) Liliana Segre ( scampata all'Olocausto e senatrice a vita della Repubblica Italiana, n.d.r. ) sta per compiere otto anni quando il suo destino cambia per sempre. E' una delle migliaia di bambini delle elementari che non rientreranno a scuola, che non rivedranno la loro maestra e i loro compagni,e questo sarà solo il primo anello della catena persecutoria. E' alla sua memoria diretta che ci affidiamo di qui in poi per sapere e capire come quelle decisioni cambiarono le vite di tanti esseri umani, e direttamente la sua. Come abbiamo condiviso, e come è giusto che sia, il suo è un racconto in prima persona, una narrazione che non viene spezzata dalle domande; la testimonianza di quel che veramente è successo, fatta da una donna che ha misurato - passo dopo passo - quella discesa agli inferi e la racconta con la precisione chirurgica di chi non ha mai smesso di essere cosciente, di guardare, di cercare di capire; con la memoria di una bambina costretta a lottare per la vita sotto l'ala di un padre che è stato tutto- famiglia assoluta per lei che non ha mai conosciuto sua madre ( la madre morì a ventisei anni, quando Liliana aveva undici mesi, n.d.r. ). In lei c'è la stessa capacità di enucleare con apparente distacco gli elementi indispensabili per capire la sequenza di fatti, ferocia, connivenza e casualità, sul piano inclinato da quella cacciata da scuola fino ad Aushwitz e ritorno. (…) Enrico Mentana ( Introduzione a ) La memoria rende liberi
(…) Spesso si dice che il ricordo e la memoria di questi fatti storici spaventosi servono a tacitare le tesi e le argomentazioni di chi vorrebbe ridimensionare, circoscrivere o addirittura negare la Shoah; e che la memoria ci è indispensabile per impedire che tutto questo un giorno si ripeta. Per me invece tutto quello che Liliana Segre ci ricorda, è soprattutto importante e prezioso in sé, ci serve per sapere di noi,di come noi italiani isolammo una minuscola parte del nostro popolo,perfettamente indistinguibile dal resto.Di come la mettemmo ai margini, le requisimmo i beni, la mortificammo e poi la consegnammo agli sterminatori. E di come poi cercammo di cancellare quel crimine nazionale,dopo. Il ritorno di Liliana dall'inferno, come il ritorno di tutti gli altri scampati, è una seconda condanna del mito degli " italiani brava gente". Semplicemente non si voleva sapere, e men che meno si voleva ricordare come,e da chi, era stato reso possibile tutto questo. Mai nessuno si è scusato con Liliana Segre. Mai nessuna rotella dell'ingranaggio, nessun volenteroso aiutante, nessun testimone della progressiva esclusione e persecuzione di quel padre e di quella bambina si è fatto vivo per manifestare il proprio sentimento, il proprio rammarico. Niente. Mai nessuna nuova teoria si è fatta carico in quel dopoguerra di capire, di aiutare,di far luce.La gran parte di quelli che avrebbero dovuto farlo- del resto- era già lì quando tutto avvenne.La quindicenne Liliana scoprì subito che quello che aveva subito non doveva interessare a nessuno, che i suoi tentativi di raccontare si scontravano con parole volte a derubricare l' Olocausto come uno dei tanti guai di guerra.Enorme tragedia, enorme rimozione E allora anche lei accantonò tutto. E forse questo l'ha salvata. Sicuramente ha preservato- nitida e limpida - una testimonianza definitiva. Prima di cominciare a raccontare ha atteso che i suoi figli fossero grandi e solo allora anche loro- come tutti - hanno saputo. Così tacitamente aveva deciso con l'uomo della sua vita. Una vita laica e borghese, come era, e nelle intenzioni doveva continuare ad essere, quella dei Segre negli anni Trenta. Parlare per lei è ancora duro. Ascoltarla - per noi - è vitale. (…) Enrico Mentana ( Introduzione a ) La memoria rende liberi