mercoledì 7 febbraio 2018

AMOR, AMOR ...E OLTRE.

 
 

                             Cambia ciò che è superficiale e anche ciò che è profondo...


AMORE

Il mio modo di amarti è semplice:
ti stringo a me
come se ci fosse un po' di giustizia nel mio cuore
e io te la potessi dare con il corpo.

Quando ti scompiglio i capelli
qualcosa di bello si forma nelle mie mani.

E quasi non so di più. Io desidero solo
stare con te in pace e stare in pace
con un dovere sconosciuto
che talvolta pesa anche nel mio cuore.




LE TUE MANI ESISTEVANO

Un giorno il mondo rimase in silenzio;
gli alberi - in alto - erano profondi e maestosi,
e noi sentivamo sotto la nostra pelle
il movimento della terra.

Soavi le tue mani nelle mie
e io sentii la gravezza e la luce
e tu che mi vivevi dentro il cuore.

Tutto era verità sotto gli alberi,
tutto era verità. Io capivo
tutte le cose come si capiscono
un frutto con la bocca, una luce con gli occhi.




AMO IL MIO CORPO

Amo il mio corpo; le sue vertebre spaccate
da acciai viventi, le sue cartilagini
bruciate, il mio cuore appena umido
e i miei capelli impazziti
nelle tue mani.
Amo pure
il mio sangue attraversato da gemiti.

Amo la calcificazione e la malinconia
arteriale e la passione del fegato
che freme nel passato e le squame
delle mie palpebre fredde.

Amo lo stame cellulare, le feci
bianche infine, l'orifizio
dell'infelicità, le midolla
della tristezza, gli anelli
della vecchiaia e l'influenza
della tenebra intestinale.
Amo i cerchi
uniti del dolore e le radici
dei tumori lividi.

Amo questo corpo vecchio e la sostanza
della sua miseria clinica.
L'oblio
dissolve la materia assorta
dinanzi ai grandi vetri
della menzogna.
Ormai
tutto è concluso.
Non c'è causa in me. In me non c'è
altro che stanchezza e
uno smarrimento antico:
andare
dall'inesistenza
all'inesistenza.
E'
un sogno.
Un sogno vuoto.

Però capita.
Io amo
tutto quanto ho creduto
fosse vivo in me.
Amai le mani
grandi di mia madre e
quel metallo antico
dei suoi occhi e quella
stanchezza piena di luce
e di freddo.

Disprezzo
l'eternità.
Ho vissuto
e non so perché.
Ora
devo amare la mia propria morte
e non so morire.

Un grande equivoco.




L' ETA' DEL FERRO

Questa è l'età del ferro nella gola. Già.
Abiti te stesso ma ti disconosci; vivi in
una cripta abbandonata nella quale ascolti il tuo cuore
mentre il grasso e l'oblio si estendono nelle tue vene
e ti calcifichi nel dolore e dalla tua bocca
cadono sillabe nere.
Vai verso l'invisibile
e sai che è reale ciò che non esiste:
la vacuità oltre il pensiero.
Ricordi vagamente le tue cause e i tuoi sogni
( l'umidità, le canzoni, l'odore dei suicidi ).
Ti alimentano l'ira e la pietà
in una cassa fredda.
Resta poco di te: vertigine, unghie
e ombre di ricordi.
Pensi la scomparsa e questa è
l'ultima ebbrezza. Ancora soavemente
accarezza le tue cartilagini e la tenebra cerebrale e il fegato
alimentato dalla pena.
Questa è l'età del ferro nella gola, del groppo
nello spirito. Chi sei?
Chi morirà in te?
Sarà l'ora della luce e già
tutto è incomprensibile. Tu
ancora ami quanto hai perso.





CHIARORE SENZA RIPOSO

Vidi lavande sommerse in un lago di sangue
e questa visione arse in me.
Oltre la pioggia vidi sempiterni inferni, belli nelle loro ulcere trasparenti;
frutti minacciati da spine e ombre e fiori eccitati dalla rugiada.
Vidi un usignolo agonizzante e la sua gola piena di luce.
La realtà è il mio pensiero.
Sto sognando l'esistenza ed è un giardino torturato. Ma morirò.
Frattanto, passano davanti a me madri incanutite nella vertigine.
Il mio pensiero è anteriore all'eternità, ma non c'è eternità.
Ho consumato la mia gioventù davanti a una tomba vuota:
mi sono estenuato in domande che ancora battono come un cavallo che galoppi tristemente nella memoria.
Ancora mi aggiro in me stesso sebbene sappia che ormai cadrò nella freddezza del mio stesso cuore.
Così è la vecchiaia: ore incomprensibili, chiarore senza riposo.



               Antonio Gamoneda

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