venerdì 30 novembre 2018

IL FIGLIO DI FRANCESCA

 
 

                                                                Ho un cuore spaventato…



Chiudi male la porta
entrano luce, voci
e mentre spio, piove.

Entra per me nel labbro
come fanno i pesci
silenziosi adagio
sono ponte di campagna
avanzo fra le gocce
rido, scivolo.

Le tue braccia
sono una grotta
dove riposo.

Ho paura che l'acqua porti via
la luce che transita guardandoti.


                                       ***


Svaligiami con cura
le cinghie aprono farfalle
scendi a rovistare
fra  topi e perle vecchie
apri le noci
sono vino fermo e ascolto.

Occorre poco raggio
per fare taglio
entrarmi accanto
visitare.
Entra la sera
sale un bisturi lento
domani il vento
le siepi faranno calce, stordiranno i cani
cadranno attese da filari.

La terra sa
qual che accade
a un fiore.


                                      ***


Luccica come una gabbia il mio futuro
è ritornato mare calvo
l'orizzonte è un bisturi profondo
piega il ferro della schiena.

Sott'acqua la confusione diventa impazzimento
muovo il mio corpo
rompo il mio corpo
come un figlio
non so tenere la testa
occhi salati
fili scoperti in faccia.

Se non fosse che vivo ancora
ogni attimo aspettando
lascerei cadere il sangue torturato
nel mare bocca di lupo.

Le stelle sono i suoi occhi gialli
e non è nemmeno la feroce spina del suo pelo
anche l'alga leggera esce dalle profondità
ed è una sorgente tutta sparsa
dai pori entrano ed escono le vele dei peccati.

La mia vita è anche questo squarcio
ho un cuore spaventato
penso ai tuoi capelli bagnati
alla pioggia dei suoi occhi

che ti corre nella schiena.




    Francesca  Serragnoli    da    Il fianco dove appoggiare un figlio

DISSIDIO TRA DUE EQUINOZI

 
 

                                 Le vite affannate… dolorose a ogni cambio di stagione…


Ogni volta che prendo l'ascensore
e salgo da terra a un piano alto
mi trovo nella galleria di fuga
di una centrale atomica in panne
e non riesco a comporre l'equazione
tra distanza, velocità e salvezza.

Ogni volta che pedalo per i campi
sono la staffetta più veloce,
la lunga teoria nemica appena mossa
dal paese, dopo il rastrellamento.

Quanta fatica a nascondere i fatti
che fino a notte tarda ci frugano
là dove restiamo spogli più che un pioppo
a dicembre, sotto un cielo in frantumi.
Le vite affannate non riscattano
pazienze, saluti, messe a fuoco
dolorose a ogni cambio di stagione.



                    Roberto Deidier     da       Solstizio

LO SPECCHIO DI FRANCESCA

 
 

                                                                Francesca  Woodman



                               " Su ogni confine sguardi chini
                                 per non vedere lo specchio,
                                 per non vedere la crepa
                                 profonda
                                e quello sguardo identico
                                che sta lì, oltre. "


                                      Maria  Fazio        Inedito   

   

VIA SCARLATTI

 
 


                                                                      E qui t'aspetto…


Con non altri che te
è il colloquio.

Non lunga tra due golfi di clamore
va - tutta case - la via;
ma l'apre d'un tratto uno squarcio
ove irrompono sparuti
monelli e forse il sole a primavera.
Adesso dentro lei par sempre sera.
Oltre anche più s'abbuia,
è cenere e fumo la via.
Ma i volti i volti non so dire:
ombra più ombra di fatica e d'ira.
A quella pena irride
uno scatto di tacchi adolescenti,
l'improvviso sgolarsi d'un duetto
d'opera a un accorso capannello.

E qui t'aspetto.


                      
             Vittorio Sereni   da      Poesie e realtà  ' 45 - ' 75

ACQUA BRUCIATA

 
 

                                                             Mani che metto sulla notte…



Sapessi la sete
che asciugo alle labbra,
mani che ingombro di niente
e poi le metto sulla notte
sino alla fine del sonno.

Su di un fianco
ché i sogni rifrangono stelle.
Che i sogni sanno
di pelle bruciata.
Rugiada che bacio d'inferno
a morire di niente.
Di niente.

Amori che fiumi di vene
il cuore che spacca.
Goccia nella goccia
diluviando
la foce che ho perso.


                         frida




giovedì 29 novembre 2018

LE STANZE DELL'ADDIO ( Presentazione )



"Ho ricominciato a lavorare. In altri luoghi scrivo, succhio gamberi, respiro foglie balsamiche, faccio l'amore, ma una parte di me è qui, sempre qui, impigliata a un filo di ferro o a una paura mai vinta, inchiodata per sempre: il puzzo di brodaglia del carrello del vitto, quello pungente dei disinfettanti, il bip del segnalatore del fine- flebo, la porta che si chiude alle mie spalle quando termina l'ora della visita ".
Così si sente chi di noi vive l'esperienza di una perdita incolmabile: impigliato, inchiodato.
Dalle pagine di questo libro affiora il volto vivissimo di una giovane donna, Giovanna De Angelis, madre di tre figli e di molti libri, editor di professione, che si ammala e muore.
Il suo compagno la cerca, con la speranza irragionevole degli innamorati, attraverso le stanze - dell'ospedale, della casa, dei ricordi - fino a perdersi.
Solo un ragazzo non si sottrae alla fratellanza profonda cui ogni dolore ci chiama e come un Caronte buono gli tende una mano verso la vita che continua a scorrere, che ci chiama in avanti, pronta a rinascere sul ciglio dell'assenza.
L'autore ( il compagno di vita ) dà voce a un addio che sembra continuamente sfuggire al tentativo di essere pronunciato, e scrive un kaddish laicissimo eppure pervaso del mistero che ci unisce a coloro che abbiamo amato.
Per dirci che -attraverso il labirinto al neon degli ospedali e le stanze chiuse del lutto - il filo tracciato da una penna sul foglio bianco è àncora di salvezza, celebrazione commossa della forza vitale delle parole.


                                

LE STANZE DELL'ADDIO 1

 
 

                                                             Ti chiamo, ti chiedo di tornare…


PRIMA STANZA

(…) Un raggio di mezzogiorno è salvo nella penombra, potente e
       quasi verticale,e si ferma nei pressi della finestra.Tanta luce in
       un metro quadro, il resto al buio. Ci metto un po' ad
       accorgermene, poi è così palese che devo confessarlo a me
       stesso: fa tanto freddo, se sei passata di qui è grave. Fa molto
       freddo, moltissimo. Perché il pavimento non è coperto da una
       lastra di ghiaccio? Si intuisce invece il solito linoleum, non ci
       sono stalattiti, colonne, stalagmiti, ma le tracce di un fiume.
       Questa stanza è un greto secco. Tremo. Sei passata di qui?
       Chiamo il tuo nome.Se mi rispondi subito -forse -siamo ancora
       in tempo. Altrimenti batteri, polmoni, impossibile. Corro da
       un angolo all'altro. Ci provo, ma le distanze non sono
      gestibili.Batto contro uno spigolo non so di cosa, poi vado nella
      direzione opposta e non arrivo mai alla fine. Questo buio è un
      complotto. L'unico raggio ha fatto un passo indietro, appena
      oltre la finestra, ridotta a una candela, mentre a oriente un
      ampio bacino scuro protende il suo dominio, una melma che
      ingurgita, procede in avanscoperta e secca la retrovia, tutto
      intero, tutto compatto e nero, tutto soffocato da questa
      estensione violenta e buia. Se mi muovo, se faccio un passo, se
      corro, ritorno a me stesso e questa condizione è dolorosa come
      un solo dente malato in una bocca. Sono tutto botte, tutto
      tumefazione, tutto nervi scoperti, tutto mialgia, sono tutte le -ie,
      tutte nella mia mente, perché tu non ci sei.
      Tu sei la verità e la distanza da tutto questo, tu sei la natura
      matrigna, tu sei la vittima, tu sei il patto violato, tu sei l'altrove
      avverato, tu sei una tra milioni, tu sei l'anticipo sui mali, tu sei
      una, tu sei la madre e la figlia, tu non sei niente di che, sei
      normale, va bene, siamo all'ospedale, il posto in cui ci si va a
      curare in corposi cubi e parallelepipedi e minutissime stanze
      che inghiottono tutto.
      Eccomi, ti chiamo. Se ti sei nascosta qui è molto pericoloso.
      Ti prendi un raffreddore, un'infezione, fai attenzione.Ti chiamo,
      ti chiedo di tornare. Forse ho detto qualcosa di sbagliato. E'
      contro di me tutto questo? E' uno scherzo, uno sgarbo a
      qualcuno, un colpo in canna ben sparato da chi macinava
      invidia per te? Cosa? Ho il fiatone, mi siedo. Cerco di pensare
      a quale direzione mi condurrà verso l'uscita. In questo
      tentativo trascorro il tempo di una vita. Mesi. Anni. Fiumi di
      discorsi e argomentazioni e cartelle cliniche e ricordi
      antichissimi - mio dio quanto affilati e quanto crudeli - che si
      conficcano nel costato. Ci dev'essere un errore. Non ho chiesto
      penitenze. Forse le avrò meritate. Forse tu le avrai meritate.
      Ecco, tu. E io appresso a te, in quella  tua ridicola religione di
      contrappesi, di perversioni riparatorie, di cocci risanati con la
      colla del sangue. Con quelli ci siamo punti?Con quelli ci siamo
      smarriti?
      Bisogna che vada. Bisogna azzerare le chiacchiere e venirti a
      cercare. Bisogna tornare al tempo in cui facevi rotolare palline
      al tavolo del ristorante, palline fatte con le molliche del pane
      per i nostri bambini e qualche volta anche per me. No. Con
      questi pensieri alzarsi è impossibile. Riproviamo.
      Sei in pericolo, alzati. Mi alzo.
      Cerca, cerco.
      Esci. Esco? No, non ce l'ho fatta.
      Impartisco ordini a me stesso e non funziona. Perché non sono
      intero. Se non mi sbrigo, presto questa immensa stanza nera
      brulicherà di me stessi che si danno ordini e io non sarò più
      vero degli altri. Via, uscire. Venirti a cercare. O andarsene via.
      Ma non ci riesco. Penso.Vaffanculo a te, ai tuoi scherzi, ai tuoi
      dolori. No. Arrivo. Non perderti. Vedrai, arrivo. Non sono io
      che rido mentre lo dico. Nemmeno tu, mi pare. Eccomi. In
      qualche modo faremo. Mi fermo ancora solo un pochino. Va
      tutto bene, vedrai. L'ha detto anche il dottore. Solo il due per
      cento, il due per cento di cellule malate. malattia in
      remissione… (…)


            Yari  Selvetella    da     Le stanze dell'addio

LE STANZE DELL'ADDIO 2

      SCORRE ?


(…)Non trovo le parole, aiutami.Ogni metro di distanza che prendi,
      un lemma scolora dal dizionario e così adesso sono ancora più
     preoccupato,perché mi pare gassosa la struttura stessa dei miei 
     pensieri: quanti metri hai fatto se si ingarbugliano tutti i
     complementi e non vado oltre i pronomi,tu, io e poi solo vaghi 
     ecco, qui, ora ?
     Scrivo. Ricapitolo per sommi capi, mi concentro sul senso delle
     preposizioni articolate. Perduta nel...perduta nella
     Trema la mano che scrive o il quaderno che le sta sotto? Non
     trovo le parole, trema la sfilza dei sedili addosso al muro, il tic
     di qualcuno si trasmette di schienale in schienale fino al mio e
    di lì alla colonna vertebrale.Da queste parti potresti stare, dietro
    una di queste porte per il visitatore occasionale,tutte simili come
     figure di carte da bridge o stagioni di Vivaldi, ma tutte diverse e
     notte all' esperto, per l'esperto. Basterebbe un indizio, anche
     solo la prima sillaba, le prime due lettere per capire quale porta
     scegliere. Dove sei? Per venirti a cercare mi serve il nome di
     quell'operazione che svolgono su di te dietro una di queste
     porte color… non so come definirlo, devo cercare sul dizionario
     del telefono : color ottanio, con la maniglia a pulsante
     difettosa.Bisogna perfino spingere e insistere per fartici entrare,
     quando non è l'infermiere ad affacciarsi e chiamare il tuo nome.
    " Amore sei sicura che non mi vuoi lì dentro, con te ? "
     A fare, a fare cosa ? Dammi un'etichetta da cercare nella lunga
     serie accanto all'ascensore. Non riesco a ricordare il nome di
     quella tortura che ha lo scopo di verificare la fluidità, lo
     scorrimento di certe irrorazioni, le quali- pare - vadano estratte
     con lunghe siringhe speciali, particolarmente dolorose per le
     persone magre come te. E' per paura di quell'esame, forse, che
     ti sei allontanata? Non credo. Oggi non era in programma e poi
     non decide mai per te, il dolore. Credi che io non lo sappia 
     quanto ti fa male, ma la scorsa volta ho appoggiato l'orecchio
     sulla porta di alluminio e plastica, davanti a tutti l'ho fatto, mi
     sono inginocchiato nel corridoio senza pudore e ho sentito che
     trattenevi grida mordendo un pugno, o forse ti  rannicchiavi
     nel camice dello specializzando, non so, non potevo vedere, solo
     origliare.
     E' farina l'aria che mastico prima che tu esca, mentre torno a
     sedermi, non so esserti grato di risparmiarmi la scena, né
     vergognarmi del sollievo, solo soffrire, soffrire con ,soffrire per.
     Aspetto.Più probabile il contrario: non mi hai detto nulla dell'
     esame da fare e ti sei infilata di nascosto in una di queste porte
     proprio per risparmiarmi la pena. Possibile? O per escludermi,
     forse? Non mi ritieni all'altezza, di cosa?
     Non importa. Non bisogna capire, bisogna sperare. Sperare che
     scorra per il verso giusto quello che deve scorrere dei misteriosi
     liquori che conteniamo, limpidi,puri e salutari flussi ramificati
     dalla base della schiena a tutti i venti polpastrelli, fino agli
     organi necessari.
     Se è così, se ti torturano dietro una di queste porte, voglio che
     scorra - un così equivoco atteggiamento da esprimere in termini
     di volontà,ma non meno in termini di speranza: spero che
     scorra ?. Forse in un'altra lingua, forse tu che ti allontani porti
     con te la parola giusta per esprimere questo sentimento - ma
     intanto io voglio, voglio che in ciascuna delle numerose porte
     in cui come in mezzo a due specchi l'ombra di te rimbalza, si
     svolga persino soavemente l'esame; poiché sembra che la
     difficoltà di prelievo del tessuto sia di per sé una sorta di
     responso o comunque un indizio negativo. Si capisce subito da
     quel che tira l'ago d'acciaio se nei nostri circuiti si aggira uno
     sgorbio, uno scarabocchio, una grafia psicotica,un borgorigmo,
     una tavola etrusca, un codice cifrato, una sconclusionata sfilza
     di 01 informatici, un grappolo di martelli Olivetti intrappolati
     alla rinfusa nei pressi del foglio.Ma se la macchina è inceppata,
     non sarà sufficiente individuare l'intrico? Non sarà dare un
     nome il primo passo?
     Sono le parole che cerco in  te, dentro di te, ancora una volta.
     (…)



           Yari  Selvetella    da         Le stanze dell'addio 


 

lunedì 26 novembre 2018

ARRIVEDERCI, MAESTRO...

 
 



                                                               ...ci mancherai…


                                            frida

A DIO PER LA PARETE NORD ( Presentazione )


Di Dio si parla - da qualche millennio - in molti modi e diverse sono le sue facce. Quantomeno due: il Dio personale e avvolgente delle religioni positive e dogmatiche - l'assolata e ospitale " parete sud"; e il Dio impersonale, inconoscibile, abissale di certi mistici e filosofi - la vertiginosa " parete nord " -.
Le pagine di questo non facile libro, ma luminoso - franco diario personale, ma al tempo stesso guida attraverso gli indizi offerti da innumerevoli miti, leggende e racconti- ci invita in proposito ad una onesta riflessione. L'autore si è aperto una via attraverso testi buddhisti, induisti, e altri di mistici del nostro Occidente.
Possiamo anche noi farne tesoro per tentare di dare una personale risposta al " quesito" principe della nostra esistenza: quello che informa la nostra vita e riempie di significato la nostra morte.           




A DIO PER LA PARETE NORD 1

 
 

" Il saggio, dopo aver studiato i trattati della conoscenza religiosa e profana, li abbandoni, come colui che - cercando il seme - abbandona la scorza " . ( Upanishad, 18 )



(…) In uno dei suoi testi sacri che l'India  chiama Upanisad,
       leggiamo: " Quaggiù non esistono differenze. Colui che crede
       di ravvisarle, passa di morte in morte ".
       Il mondo è uno. Noi però lo vediamo pieno di differenze. Che
       paradosso è mai questo? Chi consegue l'unità - continua il
       testo - si lascia alle spalle la morte. Non so se sia vero, ma ho
       voluto verificare.

       La storia dei ciechi e dell'elefante è stata raccontata migliaia
       di volte, in forme sempre diverse che hanno però un nucleo
       comune. Forse è di origine persiana o indiana e non è una
       storia buffa.
       Sei ciechi vivono in un paesino dell' Indostan ( o della Persia ).
       Arriva uno straniero ( a volte un re ) a dorso di un elefante. I
       ciechi cominciano a tastare l'animale."E' una grossa colonna"
       dice il cieco che tocca una zampa. " E' una canna ruvida " dice
       quello che tocca la proboscide. " Vi sbagliate, ragazzi, è un
       enorme ventilabro", dice un altro palpando un orecchio. " E'
       una fune", dice il cieco che stringe la coda. E continuano a
       discutere a lungo.
       L' elefante è simbolo di una realtà particolare che gli indù
       chiamano brahaman,( Creatore ), i mussulmani Allah ( parola
       che indica molte altre cose ) e Meister Eckhart, uno dei grandi
       mistici dell' Occidente " divinità ". Di questa realtà unica i
       ciechi hanno solo una visione parziale. Non sanno - che in
       certe condizioni - le cose possono pervenire ad un'abbagliante
       unità. Passano così " di morte in morte", come dice l'Upanisad
       I ciechi - naturalmente - siamo noi.
       Dov'è l'elefante? E' dovunque, risplende come migliaia di soli,
       ma paradossalmente noi non lo vediamo. " Hanno occhi ma
       non vedono, hanno orecchi ma non sentono".
       Siamo davanti ad una realtà che occupa per intero il nostro
       campo di conoscenza, ma che ci sfugge del tutto. (…)


         Hervé  Clerc     da      A Dio per la parete nord


A DIO PER LA PARETE NORD 2



(…) Noi occidentali non sappiamo dire cosa sia l'elefante nella sua
       interezza. Non abbiamo nemmeno una parola specifica per
       nominarlo. Qualche volta lo chiamiamo " Dio" . Ma l'elefante
       non è Dio nel senso che noi attribuiamo di solito a questa
       parola. Lo è in un senso completamente diverso. Così, per
       evitare confusioni, siamo ogni volta costretti a precisare:
       quando dico " Dio" non penso a un padre o a un amico, al
       creatore e al signore dei mondi, destinatario delle preghiere
       nei templi, nelle chiese, nelle sinagoghe o nelle moschee; non
       penso alla guida, al salvatore, al protettore degli uomini. Non
       so se un Dio simile esiste, ma comunque non è a lui che penso:
      quello è l'elefante in frammenti,mentre io cerco l'elefante intero
       Che cos'è l'elefante intero?. Semplice: è l'unità del reale.
       Che cos'è l'unità del reale?. Se un giorno ve lo chiedono e
       niente limita la vostra spontaneità, potete alzare la mano e
      additare il gatto spelacchiato in fondo al cortile o il minestrone
      nella pentola. E' una risposta ruvida, stupefacente, degna di un
      maestro zen. Personalmente non ne sono capace: per me è
      troppo. Così scrivo questo libro.
      Il vecchio apologo orientale dell'elefante ha un parallelo
      occidentale nel mito della caverna narrato da Platone :
      alcuni uomini vivono in una caverna e sono rassegnati a quella
      vita di buio e di isolamento. Non immaginano che sia possibile
      un'altra vita. Su una parete di fronte a loro danzano delle
      ombre. Gli uomini non vedono altro: sono affascinati da
      quelle ombre che prendono per realtà. Si sbagliano. Per vedere
      la realtà dovrebbero girare la testa: girare la testa verso la
      luce del giorno.  (…)


          Hervé  Clerc   da      A Dio per la parete nord

A DIO PER LA PARTE NORD 3


(…) Una Upanisad ( in sanscrito indica l'insieme di testi religiosi
       e filosofici indiani composti a partire dal IX - VIII sec. A.C
       fino al IV sec. a. C. n.d.r ) insegna che Dio è l'amato per
       essenza, l'amato universale.Noi crediamo di amare una donna,
       una casa, i figli e ciò che correda la nostra vita, ma in realtà
       noi amiamo sempre e soltanto lui, l'elefante nella sua interezza
       ma non lo sappiamo: così lo cerchiamo dove non è.
       Per trovare le perle, dice Jalal al- Din Rumi, fondatore della
       confraternita dei dervisci rotanti  ( i dervisci sono asceti che
       vivono in mistica povertà, simili al frati mendicanti cristiani, n.
       d. r. ) non basta guardare il mare, bisogna tuffarcisi dentro.
       Chi è alla ricerca di qualcosa la cui essenza è la totalità, deve
       diventare lui stesso totalità. Deve gettare sulla bilancia tutto il
       suo peso. Io non conosco persone di questa tempra, ma se ne
       trovano alcune nei libri di storia antica - in Plutarco per
       esempio - oppure nei testi sacri indiani.
       Una Upanisad ci racconta la storia di una di queste persone
       che non si accontentarono i restare a sognare sulla riva:

       Un uomo cercava il brahaman ( il creatore ), ma aveva l'
       impressione di girare in tondo. Un giorno confidò al suo guru:
      " Maestro, cerco il brahaman ma non lo trovo".
       I due erano sulla riva di un fiume. Il maestro, di cui ci
       immaginiamo il volto cotto dal sole e gli occhi d'anguilla,
       spinge di colpo la testa del discepolo sott'acqua. Lo sventurato
       si dibatte, ma il maestro è vigoroso e non cede. Dopo un
       intervallo che al discepolo sembra interminabile, il maestro
       gli lascia riprendere fiato. Il discepolo sgrana gli occhi senza
       capire. " Quando cercherai il brahaman con lo stesso ardore
       con cui cercavi l'aria, lo troverai", gli dice il maestro.
       E' così che bisogna cercare l'elefante: con ardore.  (…)


          
             Hervé  Clerc  da          A Dio per la parete nord 

A DIO PER LA PARETE NORD 4


(…) La divinità giace nel fondo dell'anima. Quando l'uomo non è
      più " fissato all'esterno", quando nulla più lo trattiene: nessun
      desiderio, nessun timore, né ombra né immagine, cade nel
      profondo, nella natura originaria dell'anima. Meister Eckhart
     ( teologo e mistico tedesco del XIII sec. n.d.r. ) sottolinea la
      necessità di questa caduta e allo stesso tempo la gioia che l'
      accompagna. Evidenzia così una legge della mistica,
      fondamentale quanto la legge di gravitazione in fisica: se un
      uomo non è trattenuto da nulla, se non è attaccato a nessun 
      bene materiale o intellettuale, a nessun sapere, nessuna fede,
      nessuna reputazione, nessuna rappresentazione; se è senza
      qualità, immemore di sé, cade - inevitabilmente - come la mela
      di Newton. E dove cade? Nella divinità, che è la faccia nord
      di Dio.
      Dio non tollera il vuoto, né nella natura né nell'anima. Non può
      fare a meno di irradiarsi ovunque indistintamente.
      " Dove e quando egli ti trova pronto ( cioè vuoto )" scrive
      Meister Eckhart" deve operare e diffondersi in te, proprio come
      il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può
      trattenerlo, quando l'aria è limpida e pura ". Quando non ci
      sono più veli, brilla la luce. Non può essere altrimenti. Perciò
      chi intraprende questa ricerca, non si prefigge mai di
      costruire un sistema, una teologia, un dogma, ma piuttosto di
      decostruire , fare spazio, sottrarre, proprio come si sbuccia
      una cipolla e di sprofondare finalmente nel non- sapere di Dio,
      aspettando con pazienza di essere catturato.
      Un giorno Meister Eckhart, l'uomo che non voleva essere
      " fissato all'esterno" perché amava tropo la libertà, scomparve
       senza lasciar tracce, per cui ignoriamo la data precisa della
       sua morte. Quando scomparve si stava recando ad Avignone
       ( allora sede papale - siamo nel periodo della cosiddetta "  
        cattività avignonese " - n.d.r ) per difendersi al cospetto del
        papa per le accuse che gli erano state mosse ( di eresia, per
        essersi allontanato troppo dalla dottrina ortodossa della
        Chiesa , n.d.r ). (…)


        Hervé  Clerc     da   A Dio per la parete nord


A DIO PER LA PARETE NORD 5


(…) Una breve storia indiana ci ricorda che questo meraviglioso
       esordio dell'essere non ha luogo in un lontano passato, ma qui
       e ora. bisogna soltanto prenderne consapevolezza.
      
       Un  uomo molto anziano che vive a Sravasti, città un tempo
       importante e situata sulla riva di un fiume oggi prosciugato, è
       convinto di avere perso la testa. Corre in ogni direzione come
       un pollo decapitato, urlando : " Dove sei, testa mia? Dove sei,
       testa mia? ". Ma non la trova. Poi un giorno - nel frattempo è
       invecchiato ancora e il suo volto è diventato duro come la
       pelle del coccodrillo - capisce a un tratto, non si sa in quale
       circostanza, ma con un immenso sollievo, che la sua testa è lì,
       proprio lì, sulle sue spalle, e che non si era mai spostata.
       Cercava qualcosa che in realtà non aveva mai perso, un po'
       come chi è distratto cerca gli occhiali che ha sul naso.
       Quell'uomo era soltanto assente, come la vera vita: non era lì
       Dov'era? Altrove, fuori, da qualche parte, chissà dove. 
       Per quale sortilegio cerchiamo ciò che non abbiamo perso?
       Benché questa storia sia di origine buddhista, possiamo
       considerarla una piccola introduzione al Vedanta. Il suo
       principale esponente - Sankara - ci insegna che no, non
       abbiamo perso la testa, mai, non abbiamo perso niente; no,
       non siamo persi nel mondo; no, siamo fondamentalmente ciò
       che siamo sempre stati : Dio. (…)
             

         Hervé  Clerc   da    A Dio per la parete nord


domenica 25 novembre 2018

PER TE...DONNA

 
 

                                                    No...nulla di nulla : io non rimpiango nulla…



Sei bella.
Non per quel filo di trucco.
Sei bella per quanta vita ti è
passata addosso,
per i sogni che hai dentro
e che non conosco.
Bella per tutte le volte che
toccava a te,
ma avanti il prossimo.
Per le parole spese invano
e per quelle cercate lontano.
Per ogni lacrima scesa
e per quelle nascoste di notte
al chiaro di una luna complice.
Per il sorriso che provi,
per le attenzioni che non trovi,
per le emozioni che senti
e la speranza che inventi.
Sei bella semplicemente,
come un fiore raccolto in fretta,
come un dono inaspettato,
come uno sguardo rubato
o un abbraccio sentito.
Sei bella
e non importa che il mondo
sappia,
sei bella davvero,
ma solo per chi ti sa guardare.


             
                            Angelo De Pascalis


DOVE VANNO GLI ABBRACCI...

 
 


                                          Il silenzio ancora non sa mostrarsi…



...rotola un mondo di parole
e la vita sembra non fare altro
che accogliere l'eco
del gesto che manca.

Scuote il silenzio, lo scuote tutto
quasi fosse una borraccia
da cui suggere l'ultima goccia d'acqua.


                                         ***


NON HO MERITO SE IL TEMPO

mi si dipinge addosso
e ha i colori della terra
abbandonata dall'acqua.

Mi fanno da spalla i gesti
che spostano l'ora
con l'alfabeto semplice.

I luoghi si nascondono
nelle crepe dei muri
- riottosi fino a quando?


                                        ***


DI TE NON MI AGGIORNO PIU'

sono le poesie le più tenaci
spuntano da ogni angolo
come sanguisughe s'abbeverano
all'inchiostro rosso sangue
affamate di labbra
diresti che s'accontentano
di una parola scritta
di tanto in tanto.


                                    ***


NON TROVO OSPITALITA'

nella lingua
lunghe frasi si allontanano
avvolte nelle ombre della sera.
Il silenzio ancora non sa
mostrarsi per quello che è.



                         Giancarlo  Stoccoro       Inediti


sabato 24 novembre 2018

I REFLEX DI YUSUF

 
 
 
 Come posso farti sapere che ti sento…
 
 
 
E adesso che ci penso esisto
solo se mi guardi: di riflesso.
Essere alla Berkeley significa
non solo venire percepiti, ma
garantirsi un posto accanto
al nulla che da soli siamo.


                                        ***


Le tue mani hanno aperto il fuoco
e io ho creduto nel gioco delle parti
e ti ho facilitato i colpi. Nessuno però
sentì l'odore di bruciato, nemmeno io
per via dell'ipertrofia dei turbinati. Così
per così poco - con l'iuto, il mio -
hai smontato la passione di un gesto
con un'indifferenza senza peccato.
Il tuo contatto, le tue dita sul labbro inferiore
immobile alla mia opinione sull'amore
alla pressione superiore usata sul grilletto.


                                  ***


Quello che non volevo accadesse è accaduto
le mani si sono interrotte
la lingua e il palato hanno dato
un lampo chinino nella notte
una non luce calda come c'era
se ci fosse stata la saliva
avrebbe fatto il suo dovere
avrebbe sferrato il colpo
lasciato irrivelato il cuore
ariete del torace
che mi piace
che mi tace.


                                       ***


Vorrei potermi essere d'aiuto
farmi in quattro, davvero
come faccio? non basto
nemmeno più a me stesso.
Non ho proprio la testa,
mi dispiace, questa storia
" amerai il prossimo tuo
come te stesso", mi rovescia:
non fa che darmi in cerca
di me stesso in tutti gli altri.


                                           ***


Eccoci arrivati: il molo ancora caldo
accoglie altri nei vapori, accartocciati
zuppi sull'asfalto: i vasi dilatati
il corpo flesso, gli occhi chiusi
cuciti dal sale e il sole
sadico li cuoce ancora.
Ma venga, venga un'ora
in cui bruciano a noi gli occhi
e si chiedeva - all'ultimo - in ginocchio
salva almeno la coscienza.


                                  
      Kabir Yusuf  Abukar    da      Reflex



giovedì 22 novembre 2018

SULL'ESSERE E IL TACERE

 
 



                                                  " Abbi più di quanto mostri,
                             parla meno di quanto sai "
                           


                                        William Shakespeare

sabato 17 novembre 2018

IL SOGNATORE

 
 
 



                                                                   " Il sognatore è un uomo
                                                 con i piedi
                                  piantati saldamente sulle nuvole "


                                             Ennio Flaiano

NON POSSO TRADURRE IL MIO CUORE ( Introduzione )



La colta e orgogliosa Victoria Ocampo  ( esponente della società ricca e borghese di Buenos Aires ) incontra Rabindranath Tagore durante una breve tappa di uno dei molteplici tour del poeta: per due intensi mesi - dal Novembre 1924 al Gennaio 1925 - ospita nella villa di Miralrìo ( a San Isidro ), lo scrittore convalescente. Se Victoria subito si infiamma di una passione mistico - erotica ( fra i due esisteva una più che consistente differenza d'età ), Tagore, dapprima intento a sublimare il fascino dell'adorante " carceriera ", è fermo nel ribadire la libertà della sua vocazione spirituale e creativa, pur nel rimpianto ( tardivo! ) della sua Vijaya.
In queste affascinanti pagine rimane scolpita la relazione impossibile tra un carismatico e già anziano maestro e una " discepola" troppo giovane e agli esordi della sua attività intellettuale: le lettere che si scambiano nell'arco di sedici anni, sono la testimonianza di un'esperienza emotiva e intellettuale irripetibile tra due mondi solo apparentemente lontani.


                          

NON POSSO TRADURRE IL MIO CUORE ( Tagore & V. Ocampo ) 1

 
 

                                                                      Rabindranath e Victoria


Rabindranath Tagore a Victoria Ocampo

San Isidro, 4 Novembre 1924

(…) Ieri sera, quando vi ho portato i miei ringraziamenti per ciò
       che di solito viene definito ospitalità, ho sperato che sentiste
       che quel che dicevo era molto meno di quel che intendevo dire.
       Vi sarà difficile comprendere pienamente quale immenso
       carico di solitudine io porti con me; un peso che è stato
       imposto alla mia vita soprattutto dalla mia fama straordinaria
       e improvvisa. Sono come un Paese sventurato nel quale un
       triste giorno è stata scoperta una miniera di carbone, col
       risultato che i suoi fiori vengono trascurati, le sue foreste
       abbattute, e che giace nudo davanti allo spietato sguardo
       scrutatore di un manipolo di cercatori di tesori. Il mio prezzo
       di mercato è cresciuto vertiginosamente e il mio valore
       personale è stato oscurato. Cerco di renderlo concreto -
       questo valore - con un pungente desiderio che mi perseguita
       senza tregua. Può essere soddisfatto solo dall'amore di una
       donna, e per lungo tempo ho sperato di meritarlo.
        Oggi sento che questo dono prezioso mi è venuto da voi, e che
        voi sapete apprezzarmi per ciò che sono e non per ciò che
        contengo. Questo mi ha tanto rallegrato, e tuttavia so di
        essere giunto a quel periodo della vita in cui - nella mia
        traversata del deserto - ho bisogno come mai prima della mia
        provvista d'acqua, ma non ho né i mezzi né la forza per
        portarla, e perciò posso solo ringraziare la mia buona ventura
        quando mi viene offerta, e poi prendere congedo.


                      Sri- Rabindranath  - Thakun    (…)


Rabindranath Tagore & Victoria Ocampo  da  Non posso tradurre il mio cuore ( Lettere 1924- 1940 )