domenica 30 settembre 2018

JAN VERMEER ( Rendere visibile il dolore )

 
 
 Lattaia
 
 
Merlettaia

 
Fanciulla che scrive una lettera


(…) Quella rappresentata dagli Olandesi è la domenica della vita ,
       la sua trasfigurazione gaia, serena, senza affanni, libera dal
       sentimento del tragico;la loro pittura esprime la forma vivente,
       la conciliata parvenza della natura umana, di ciò che l'uomo é
       e -soprattutto - " di ciò che quest'uomo determinato è ".
       Ma un'attenta osservazione della Donna con la brocca , di
       quello sguardo assente che varca i confini delle mura
       domestiche, suggerisce una lettura dell'opera di Vermeer non
       più connotata dai fin troppo abusati caratteri della serena
       compostezza e della pace interiore: anche per l'artista di Delft
       la vita è altrove, nel mittente o nel destinatario di una lettera,
       nel ricordo di una promessa d'amore, nelle terre lontane
       riprodotte dalle carte geografiche, nell'evento inatteso che
       penetra negli interni così come filtra la luce, nello stesso
       bagliore fortuito e ineluttabile che altera la nostra
       percezione delle cose circostanti e riscatta l'opacità degli
       utilizzabili intramondani.
       In realtà le figure di Vermeer, benchè inondate di luce e
       vivificate da colori di smagliante purezza, tradiscono in modo
       appena percettibile una velatura malinconica, una riservatezza
       pensosa, un cospicuo risvolto d'ombra, talvolta un difetto di
       vitalità, oppure rivelano una insospettata fragilità, una
       nostalgia indefinita, un disincanto che potrebbe renderle
       inoperose, una sfumatura di tristezza generata dalla
       consapevolezza della caducità dei gesti rappresentati.
      Ciò che tiene a bada l'inquietudine,che limita il raggio d'azione
       dell'angoscia, è l'atto di fede del pittore in una visione
       classicista del mondo, confortata da una padronanza assoluta
       della composizione artistica. Vermeer è un umanista fautore
       della cooperazione fra arte e scienza: la misura, l'equilibrio,l'
       ordinata dilectio dei suoi quadri risiede nella presenza
       quasi onnipervasiva di strumenti musicali e scientifici, carte
       geografiche, libri e altri quadri di evidente pregnanza
       simbolica, accostati con assoluta naturalezza, senza enfasi o
       compiacimento intellettuale, agli oggetti di uso domestico,
       integrati nel dominio pratico- inerte della quotidianità.(…)


Marco Vozza   da   Rendere visibile il dolore ( La pittura oltre la filosofia )

 
Donna con la brocca
 
            

EGON SCHIELE ( Rendere visibile il dolore )

 
 
 
Alberi autunnali

 
Donna incinta e la morte

 
Madre cieca


(…) L' autunno era la stagione preferita da Schiele: dichiarava di
      amarlo " non soltanto come stagione dell'anno, ma anche come
      una condizione dell'uomo e delle cose.  La delicata, gentile
     malinconia di cui la natura sembra permeata in autunno, emana
     perfino dai vecchi muri, colma il cuore di tristezza e ci ricorda
     così che siamo soltanto pellegrini su questa terra ". Ogni
     paesaggio - popolato di strade, di alberi e case-veniva percepito
     nel suo cono d'ombra, nella sua stilizzazione devitalizzata, colto
     attraverso uno stato d'animo che neutralizzava ogni variabilità
     atmosferica: la finalità interna, la vocazione ineludibile, la
    ragione d'essere di ogni stagione risiedeva nella malinconia dell'
    autunno, onnipervasiva anche nel mese di agosto: " Si può
    percepire intimamente, nel profondo del cuore - scriveva Schiele
    ventiduenne - un albero autunnale in piena estate; io vorrei
    dipingere questa malinconia ". Agli occhi dell'artista, l'autunno
    non è mai stato una tarda estate, quanto un inesorabile preludio
    dell'inverno, annunciato dall'inaridimento della natura visibile
    nei rami secchi e nei girasoli appassiti, dall'assorbimento della
    linfa vitale che appare come un presagio di morte: i tre alberi
    autunnali del 1911,ormai quasi privi di foglie, sembrano evocare
    il Golgota, l'evento di una gelida estinzione dell'uomo.
    Il pittore sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta cioè in sé
    il suo esiziale compimento, fin dall'istante del concepimento,
    come attesta il funesto dipinto del 1910  La madre morta, in cui
    il grembo appare come un lugubre mantello, un involucro
    mortuario che racchiude il  Sein Zum Tode del nascituro, ne
    circoscrive la parabola esistenziale, prefigurandola orfana dell'
    affetto materno.
    Per Schiele la maternità è l'evento tragico della vita, in cui si
    preannuncia la percezione originaria del dolore e della
    solitudine che neppure l'erotismo e l'apparente congiunzione dei
    corpi può scalfire. Si osservi la tela Donna incinta e la morte
    del 1911 che è un'autentica annunciazione macabra, in cui un
    monaco di spettrali fattezze appare alla puerpera agonizzante
    come angelo della morte; e qualora un bagliore di vita riesca a
    sottrarsi all'abbraccio mortale, esso non può che esibire la
    propria mutilazione, come nello splendido Madre cieca  del
    1914, in cui l'allattamento viene privato di quello sguardo
    affettuoso che comunicherebbe fiducia al neonato.
    Schiele, nell'iconografia della malinconia e della vanitas ,
    introduce un evento di grande rilievo, operandone una
    trasfigurazione tragica: l'uomo non reclina più la testa sotto il
    peso della riservatezza pensosa , non medita più sulla morte
    raffigurata da un teschio posato sul tavolino dello studio come
     altro da sé, ma assume sul proprio volto l'icona funebre,
    diventa morte incarnata esibita nel gesto di esistere, nel
    godimento del sesso e nella prostrazione della sofferenza . (…)


Marco Vozza  da  Rendere visibile il dolore (  La pittura oltre la filosofia )

                             
 
Madre coi due bambini

FRANCIS BACON ( Rendere visibile il dolore )

 
 
 
Studio per ritratto

 
Autoritratto

 
Portrait of Michel Leiris
 

( …) Il realismo di Bacon consiste nell' essere fedeli alla " brutalità
        delle cose", al loro emergere da fondali di abiezione, nel
        cogliere la realtà secondo modalità affettive, precategoriali
        di attrazione e repulsione, nel registrare moti di eccitazione,
        pulsioni motorie, sfrenate energie di una voracità animale,
        vicissitudini convulsive, tensioni spasmodiche raggelate in
       posture innaturali, inestricabili amplessi,perverse esplorazioni
       corporee, lancinanti mutilazioni che si producono come
       effrazione violenta, genesi passiva anteriore al controllo attivo
       della coscienza e della volontà.
      " La violenza della sensazione- scrive Nadia Fusini - nel
        chiedere passaggio all'immagine, impone la deformazione. La
        creazione della figura - per Bacon - avviene a questo incrocio,
        dove azione e passione si confondono. Al centro della pittura
        per lui c'è un mistero di passività: l' artista è preda di Tyche
       ( Dea greca personificazione della sorte n.d.r ) e di due suoi
       demoni e inservienti, l' Irrazionale e lo Spaesante, grazie ai
       quali deflagrano i feticci tradizionali della rappresentazione".
       In questo spazio emotivo della creazione, propiziata dai
       repentini e insondabili capricci del caso, Bacon cerca di
       annettere al visibile la sua ombra, quel risvolto invisibile
       nascosto dalla fodera dell'apparenza, trasferendo in pittura la
       lezione dei grandi tragici come Eschilo e Shakespeare che ci
       hanno insegnato che l'esistenza è futile colpevolezza oppure
       raffigurando in un grande Trittico del 1967 la consapevolezza
       di Eliot secondo cui la vita non è altro che " birth, copulation,
       and death".
      Le figure di Bacon costituiscono  anche una delle risposte più
      persuasive alla domanda di Klee: come rendere visibili forze
      invisibili? Quelle di Bacon sono forze di isolamento, di
      deformazione e di dissipazione che convogliano gli effetti
      entropici dell'irresistibile forza del tempo, del soverchiante
      lavoro della morte. Le teste, più che i volti, sono esposte alle
      forze di pressione, dilatazione, contrazione e stiramento,
      generando grida, spasmi, cadute, mutilazioni e immedicabili
      sofferenze.  (…)
       

Marco Vozza   da   Rendere visibile il dolore ( La pittura oltre la filosofia )

                 

                                       Trittico - Studio di figure per la Crocefissione

                                        
 

sabato 29 settembre 2018

RENDERE VISIBILE IL DOLORE 1

 
 

                                                               Morte e Trasfigurazione



ERMENEUTICA DELLA PITTURA ( Ermeneutica = Metodologia riguardante l'interpretazione dei testi; in filosofia si intende anche l' interpretazione dell'esistenza umana )

(…) L'essenza della pittura, quale si evince dalla sua plurisecolare
       manifestazione, colta nella differenza tra l'atteggiamento
      teorico della filosofia e quello espressivo dell'arte, risiede nella
      capacità di attribuire all'idea una configurazione sensibile,
      neutralizzando ogni opposizione tra profondità e superficie. A
      questa determinazione formale di origine hegeliana, manca il
      completamento relativo al contenuto della pittura : qual è l'
      oggetto o l'esperienza di tale render visibile ? quale l'idea
      perdurante di un gesto che si ripete nel corso del tempo?
      Conferire visibilità al dolore, alla tragedia di una vita che si
      perpetua nella sofferenza ( senza postulare alcuna catarsi
      estetica ) è la finalità inespressa di tutta la pittura occidentale,
      anche in funzione di risarcimento rispetto a quella latitanza
      della tradizione speculativa già denunciata da Simmel, il quale
      annotava nel suo diario " E' sorprendente quanto poco il dolore
      degli uomini sia entrato nella loro filosofia ".
      Una rimozione di ciò che sfugge alla razionalità apofantica, un
      silenzio che si propaga nelle zone indicibili del dolore, di un
      patire refrattario ad ogni giustificazione metafisica, una lacuna
      epistemica rispetto a cui la pittura soddisfa un'istanza
      compensativa, occupando l'ambito biopatico del sapere e
      configurandosi essenzialmente come  pathei mathos,
      conoscenza attraverso la passione di esistere.
      Mentre la filosofia esibisce teodicee, l' arte rende visibile il
      dolore: questa la tesi che orienta la nostra ermeneutica della
      pittura, che le conferisce un distintivo attributo tragico, che
      configura una visione del mondo scaturita dall'esperienza
      percettiva del prodotto artistico. Se la cognizione del dolore
      appare come l' impensato della filosofia classica, allora
      dovremo ribaltare ancora una volta la profezia hegeliana
      relativa alla " morte dell'arte" poiché, a conclusione della
      tradizione metafisica di pensiero, alla fine cioè della filosofia,
      troveremo proprio l'arte ( in particolare la pittura ) capace di
      ovviare alle inadempienze della filosofia .  (…)


Marco Vozza   da   Rendere visibile il dolore ( La pittura oltre la filosofia )


RENDERE VISIBILE IL DOLORE 2



(…) Perseverando in una identità onto- teologica, la filosofia ha
       tradito il suo compito: trattando la morte come un mero nulla,
       utilizzando hegelianamente il mortuum come " immane forza
       del negativo" per l'elevazione dello spirito, dimenticando le
       cifre esistenziali dell'ombra e del mistero, di quella passione
       della notte che si contrappone all' ordine del giorno,omettendo
       l'elaborazione di un'adeguata cognizione del dolore,
      riproponendo costantemente una giustificazione metafisica dell'
      esistenza del male nel mondo, si è posta nei confronti dell'
      esperienza sempre più come un pensiero di sorvolo privo di
      attrito. Già Kant, nel 1791,aveva scritto un saggio dal titolo"
      Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea" in cui,
      dopo aver criticato ogni giustificazione speculativa delle
      controfinalità esistenti in natura, giudicava autentico soltanto
      l'indignato lamento di Giobbe che prende atto dei limiti della
      nostra ragione al cospetto dell'insondabile, dell'
      incondizionatezza del decreto divino.
      Un pensiero radicalmente finito o compiutamente tragico, non
      sopporta alcuna " teo-logo- antropo - poeto- dicea ", alcuna
      redenzione cioè che giustifichi il dolore. La sofferenza non è
      governabile dal discorso filosofico: è l'incommensurabile,
     " l'incondivisibile, l'impenetrabile durezza", l'insostenibile
      smarrimento che viene a lambire l'esposizione nuda del senso,
      la sua défaillance costitutiva, una mancanza inappropriabile,
      priva di un orizzonte regolatore, una scheggia assoluta in balia
      della " sovranità possibile della sorte."
      L'esperienza del dolore si identifica con quell'assenza o quella
      oscurità del senso: non resta che un corpo ferito, patetico,
      straziato, la pietà muta al cospetto di un corpo deposto. Sotto
      questo aspetto, l'esposizione della sofferenza decreta la fine
       della filosofia, l'insolvenza di quel secolare logos evasivo che
      offriva argomenti per giustificare il dolore,per sublimarlo come
      occasione di redenzione dello spirito.  (…)


Marco Vozza  da  Rendere visibile il dolore ( La pittura oltre la filosofia )

RENDERE VISIBILE IL DOLORE 3


(…) Fine della filosofia come discorso che neutralizza il negativo
      ( il male e il dolore del mondo ) in una sorta di paradossale
      armonia prestabilita,ma Inizio del pensiero come testimonianza
      lacerante, come " sguardo dal nulla ", come interpretazione
      ontico- esistentiva che attinge al patrimonio figurale della
      pittura, di quella grande tradizione tragica che - da Grunewald
      a Bacon,da Mantegna a Stael-ha saputo conferire un senso alla
      verità del dolore, allo scandalo della sofferenza, all'attesa dell'
      irrevocabile. La pittura rende visibili gli affetti, le passioni e le
      sensazioni, le forze cioè che agiscono dietro le quinte delle
      nostre elaborazioni concettuali, compito che l'arte sembra
      ereditare dalla crisi della filosofia teoretica, tentandone una
      compensazione figurale , al di là dell'impropria
      contrapposizione di astratto e figurativo.Ancor più della poesia
     - che Leopardi voleva modellata sugli affetti e sulle cose
      sensibili - la pittura è il corpo  dell'idea, la sua figura sensibile
      innervata nella tonalità emotiva e nell'esperienza pratica di chi
      la esprime. Una logica delle sensazioni organizzate - come
      affermava Cézanne, organizzate dalla mente ma espresse da un
      corpo palpitante attraverso i valori tattili della mano, da quelle
      dita che  trattengono e rendono sensibile l'idea, che dotano di
      forma un'imperscrutabile interiorità.
      Non limitandosi a produrre il visibile della percezione ottica, l'
      arte determina un ampliamento d'esperienza, promuove un
      incremento d'essere, perché è capace di trasformare bagliori
      fortuiti in eventi ineluttabili, percezioni indistinte in significati
      strutturali, portando tragicamente alla luce - come ben
      comprese Paul Klee -tutti quei mondi possibili in cui albergano
      i morti e i non nati , che soltanto un angusto principio di realtà
    o la perseveranza di un'estetica naturalistica possono trascurare
      confinandoli nel regno dell'incompiuto. E' dunque nella
      sporgenza dell'essere sul nulla, sull'abisso da cui proviene e a
      cui è destinato, che va reperita l'essenza dell'opera d'arte: tutti
      i grandi quadri della nostra tradizione figurativa sono
      affettivamente tonalizzati dalla peculiare e inalienabile
      cognizione del dolore sedimentata nel vissuto dei loro artefici,
      dall'esperienza umana, troppo umana di soggetti affidati al
      dolore e orientati verso la morte. (…)


Marco Vozza  da  Rendere visibile il dolore ( La pittura oltre la filosofia )

venerdì 28 settembre 2018

AMOR...amor...

 
 
         
                                  " Tutti gli innamorati sono in Dio " ( Alda Merini )




                 
La fiamma che me intrò per li occhi al core
consuma l'alma mia sì dolcemente
che apena il mio morir per me si sente,
tanto suave e infuso è quello ardore.

Come colui che in sonno dolce more,
morso d'aspe, e con l'occhio languente
rifiuta il giorno, e la torbida mente
senza alcun senso perde ogni vigore;

così ancor io, del mio dolce veneno
pasciuto, vo' mancando a poco a poco,
né posso del mancar prender sospetto:

ché, abenché io senta il spirto venir meno,
non cerco per campar spegner il foco,
per non spegner con seco il mio diletto.

 
                         Matteo Maria Boiardo
            
                                   ***

Pietà - Donna - per Dio, deh non più guerra!
Non più guerra per Dio, ch'i mi t'arrendo:
i' son quasi che morto, io iacio in terra,
vinto mi chiamo e più non mi difendo.
Legami, e in qual prigion tu vuoi mi serra,
ché maggior gloria ti sarò vivendo:
se temi ch'io non fugga, fa' un nodo
della tua trezza e legami a tuo modo.

                     Angelo Ambrogini detto il Poliziano


                                  ***

Ecco il segno: s'innerva
sul muro che s'indora:
un frastaglio di palma
bruciato dai barbagli dell'aurora.

Il passo che proviene
dalla serra sì lieve,
non è felpato dalla neve, è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene.

                                  Eugenio Montale


                               ***


Vieni, vieni da me, che già son vecchio,
amore no, ma  ombra d'amore fatta
di mute cose quotidiane, viste
di tetti, strade, di schiuse finestre
da cui spiano gli amanti la venuta
dell'amante, o d'invetriate malate,
e procedere smunto di giornate
penose, e pace ombrosa che ti perdi
come si perde nel padule in volo
fulminata la folaga che affoga
e poche piume restano per l'aria:
io sono la realtà che qui vacilla
senza nemmeno un suo perché
se tu non vieni - amore - ombra d'amore,
o caro sonno, a darmi la tua requie.

                           Carlo Betocchi


                                ***


Lo sguardo di una stella umida cade
sul prato, la tempesta acre respira
fra gli alberi animati, un soffio rade
le vie, un inquieto profumo delira.

Un corruccio fuggevole è passato
sull'erba, una chiarezza verde esplosa
vibra nel vento breve e ondulato
l'aria veloce scivola e si posa.

Sei tu, l'attesa non è stata vana.
Sei venuta fin qui dove la pioggia
affumica le piante e s'allontana,
un'eco quieta dorme nella loggia.

Ah, ma l'angoscia in me non è finita !
Mentre il cielo si fa tardo e non muta
l'incubo ancora sei, sei tu perita
in un luogo dell'anima e perduta.

                                      Mario Luzi


                                          ***

Essenzialmente lei di lui delusa, non
viceversa. E lui se lo crede,
ne spia le notizie, conterebbe
trovarsela oh chi si vede felice equivoco
in una stessa camera d'albergo ma remotissimo,
ciao come va puntando su un minimo d'emozione
vent'anni dopo levarsi quel piccolo sfizio
che avanza di tanta passione:
tutto senza preamboli senza commento
s'intende senza impegno soltanto per una sera.

E lei niente da perdere di che andar fiera
del vuoto futuro passato
di che stupirlo nessuna sorpresa.
Ma lei tutto previene:lui che modicamente
lustro contende con la calvizie e l'epa
e non più balbettando trionfa te lo dicevo.
Niente da confessare che a lui non piaccia
di lei finalmente ascoltare:
così non gli nega la donna che basta a se stessa
due lacrimette per salvargli la faccia.

                         Giovanni Giudici


 Poeti Innamorati    ( Da Guittone a Raboni ) a cura di Patrizia Valduga


AMOR DISCRETO

 
 

                                                           Traditemi, io non mi doglio…


Sdegnatevi
quanto vi pare,
pupille care,
armatevi
d'ira e d'orgoglio.
Lasciatevi adorare, altro non voglio.

Feritemi
con guanti fieri,
bei lumi arcieri.
Traditemi,
io non mi doglio.
Lasciatevi adorare, altro non voglio.


            Francesco De Lemene  da     I lirici del Seicento e dell' Arcadia

NELLO SPAZIO CURVO DI UN BACIO

 
 


Ancora qui a domandarsi e far finta di niente come se il tempo per noi non costasse l'uguale…



In un silenzio di conchiglia tendo i miei sensi assorti:
non sono fuggiti i giorni degli affanni.
Vorrei che fossimo fiamma di nuvole
e stanchezza di rugiada che indugia sulla pelle.
Vorrei che fossimo meteore di tristezza
isole inumidite da onde di gabbiani.
Ma dentro il vaso s'inchina la foglia al fiore:
 siamo ombre sottili che corrono su un filo.

E il bacio che vorrei si inginocchia
fra lenzuola lontane.


                 frida



giovedì 27 settembre 2018

IL CORPO - PAROLA DELLE DONNE ( Introduzione )



Viviamo in un tempo in cui il corpo si mostra soprattutto come immagine, fino a diventare un " oggetto sacro" da mantenere immobilizzato in un  sogno senza fine di giovinezza e fascino. Il percorso di questo libro cerca di oltrepassare l'angustia di tale sguardo e di indagare i molteplici destini che investono il corpo, soprattutto quello femminile. Ciò di cui si parla è il corpo come luogo dove precipitano ferite affettive, sintomi psichici, nodi di emozioni e sentimenti. Le parole delle donne che raccontano il proprio dolore, rimandano continuamente ai legami nascosti che uniscono gli affetti alla materia corporea di cui ciascuno di noi è fatto. L'anoressia, l'isteria, la depressione, le affezioni cutanee, rappresentano solo alcune di quelle " stazioni del patimento femminile " che il testo mette al proprio centro per interrogarle e coglierne il senso. La relazione madre- figlia, carica di una remota sostanza corporea e passionale, si pone come nucleo del viaggio interpretativo, ma il legame nascosto tra il mondo affettivo e la materia corporea non si polarizza solo sul dolore che si organizza in malattia: esso tocca tutti i soggetti e - in particolare - tutte le donne e gli argomenti trattati evocano un percorso di approfondimento e di disvelamento di sé che riguarda ciascuna.


                 

IL CORPO - PAROLA DELLE DONNE 1

 
 

                                 Caravaggio " Scudo con testa di Medusa "  ( particolare)



(…) " Spaventevole " è il termine che Freud sceglie per evocare l'
        inquietante estraneità, il tumulto degli affetti scatenati dall'
        immagine " orripilante" della Medusa: " la vista della testa di
        Medusa - per l'orrore che suscita - irrigidisce lo spettatore, lo
        muta in pietra " ( S. Freud , La testa di Medusa ). Il volto della
        Gorgone crea un'immediata fissazione: incrociarne gli occhi
        significa cessare di essere se stessi e precipitare in uno spazio
      senza confini e distanza in cui l' Uno e il Due si sovrappongono
       e confondono. E' questa la regione della vertigine
       insopportabile, di quello spaesamento quasi innominabile che
       si genera - talora - nel massimo dell'intimità e del contatto.
       Quella " sorta di spaesamento che risale a quanto ci è noto da
       lungo tempo" ( S. Freud, il Perturbante ) designa - allora - il
       contagio osceno con la materia, con la cosa senza nome, con
       il ventre- utero la cui oscura e minacciosa voragine cattura e
       pietrifica allo stesso tempo. Tra le figure mitiche, Medusa è
       forse la più estrema delle rappresentazioni immaginali: unica
       mortale delle tre Gorgoni - il suo nome evoca
       contemporaneamente un'enorme mostruosità e gli abissi
       cavernosi del mare e della terra - dimora al di là dell' Oceano,
       sul confine ultimo della Notte, alle porte dell' Ade. E' la
       guardiana tra i due mondi: quello dei vivi e quello dei morti;
       quello delle cose visibili e quello delle cose insostenibili allo
       sguardo; quello dell'ordine e della ragione e quello della
       dismisura e della follia. E poiché partecipa dei due regni, la
       natura di Medusa è doppia e irrinunciabilmente ambigua, di
       quella tremenda ambiguità che Rilke, nella Prima Elegia ,
       riconosce nella bellezza " Perchè il bello non è / che il 
       tremendo al suo inizio, noi lo possiamo tollerare / ancora…
       Degli Angeli ciascuno è tremendo  ".
       Non possiamo pensare alla Gorgone come ad un Angelo, e
       tuttavia anch'essa è segnata dalla marca della seduttività e -
       insieme - di ciò che spaventa; in questo senso la sua figura è
       immersa e fa emergere le stesse sensazioni che suscita quanto
       ha a che fare con la sessualità, quanto ci ricorda che "siamo
       nati e siamo incisi dalla morte"( J. Clair, La vision de Meduse)
       (…)


Gabriella  Buzzatti & Anna Salvo  da   Il corpo - parola delle donne ( I legami nascosti tra il corpo e gli affetti ) 
     

IL CORPO - PAROLA DELLE DONNE 2



(…) In uno scritto pubblicato nel 1923, Sandor Ferenczi riconduce
       il simbolo mitologico del ribrezzo e del terrore - la testa di
       Medusa - all'impressione suscitata dal sesso femminile in
       quanto privo di pene; ed è a questo scritto - appunto - che si
       richiama Freud in una breve ma intensa nota del 1922,
       pubblicata postuma nel 1940. L'interpretazione di dare alla
       figura della Gorgone, è per lui ovvia : decapitare =  evirare.
       Il terrore di fronte a Medusa è dunque terrore dell'evirazione,
       legato alla vista di qualcosa.
       La bocca spalancata di Medusa fa apparire la matrice
       originaria: la cavità del corpo materno, la vagina, il buco
       mancante di fallo. Questa cosa - e il termine stesso allude a
       qualcosa di indistinto, di arcaico, richiamando uno status di
       degrado e indifferenziazione - richiama su di sé l'orrore dello
       sguardo: essa viene necessariamente fantasmizzata come
       abisso divorante, come intollerabile minaccia di castrazione.
       Il pensiero trova qui il suo sbarramento ultimo, il suo limite
       estremo; impatta la soglia oltre la quale non vi sono che
       angoscia e completo smarrimento.
       A una donna - racconta il Mito- toccherà emanare la sentenza
       della fine di Medusa, a una donna di natura divina, concepita
       dalla testa del dio degli dei. E' infatti Pallade Atena che guida
       e aiuta Perseo nella sua impresa, rendendolo invisibile : uno
      scudo lucente come specchio e il riflesso argenteo di un falcetto
      permettono all'eroe, in virtù dello sguardo indiretto, di colpire
      a morte Medusa senza incontrarne  lo sguardo. E quando " 
      venne il momento che Perseo staccò la testa dal collo, sprizzò
      fuori il grande Crisaore e il cavallo Pegaso" : alla testa recisa
         della Gorgone, dall'uccisione della sessualità femminile
      indispensabile e " insensata " nasce il cavallo alato, simbolo
      della vittoria della luce sulle tenebre. (…)


Gabriella Buzzatti &  Anna Salvo  da  Il corpo- parola delle donne ( il  legame nascosto tra il corpo e gli affetti ) 


                                              
 
 
Caravaggio : "Scudo con testa di Medusa"
 
 

mercoledì 26 settembre 2018

RIMANERE CON RILKE

 
 



                            "E noi che pensiamo la felicità
                              come un'ascesa, avremmo l'emozione
                            - che quasi ci smarrisce -
                             di quando cosa ch'è felice
                             cade. "



                              Rainer Maria Rilke  da    Decima Elegia Duinese



martedì 25 settembre 2018

LA COSA GIUSTA

 
 

                                      Non c'è niente da capire: basta sedersi ed ascoltare…



La cosa giusta si incastra nella gola
e nelle tempie pulsa il conto alla rovescia.
Un sorriso d'apnea in assetto incostante
si frantuma nel petto dall'aspetto ingobbito.
Riemergere non serve.
Non cambierà i marosi di un oceano
che non si può contenere.


                              frida

PRIMA ELEGIA DUINESE





                                                 Strano non desiderare  più i desideri…


Se pur gridassi, chi mi udrebbe dalle gerarchie
degli angeli? E se uno mi stringesse d'improvviso
al cuore, soccomberei per la sua troppo forte presenza-.
Perché nulla è il bello, se non l'emergenza
del tremendo: forse possiamo reggerlo ancora,
ed ammirarlo anche, perché l'indifferente
non degna distruggerci. Ognuno degli angeli è tremendo.
E mi trattengo così,  e inghiotto l'appello di oscuri
singulti. Ah! Chi possiamo allora chiamare in aiuto?
Gli angeli no, gli uomini no, e i sagaci
animali lo notano già quanto noi inadeguati
siamo qui di casa nel mondo già interpretato.
Ci resta forse un albero là sul pendio, che ogni giorno
possiamo rivedere; ci resta la strada di ieri e anche
l'adusata fedeltà ad un'abitudine, che in noi
si è rintanata, è rimasta, e non se ne andò.
Oh, e la notte, la notte, quando il vento colmo
di cosmici spazi ci corrode il volto - a chi mai
potrebbe mancare l'agognata, che sì dolcemente disillude,
essa, che di fronte al cuore solitario penosamente
si leva? E' forse più lieve agli amanti?
Il destino lo nascondono soltanto l'un l'altro.
Non lo sai ancora? Getta dalle tue braccia il vuoto
fin dentro gli spazi che respiriamo; forse gli uccelli
con volo più intimo sentono l'aria così dilatata.

Sì, le primavere ebbero bisogno di te. Di te cercava
qualche stella, ché tu ti mettessi sulle sue tracce.
Saliva attraverso  il passato un'onda, o forse là dove
passasti, da una finestra spalancata ti si offriva
un violino. Tutto questo era un compito. Ma tu, tu
lo potresti reggere? Non eri forse - ancora una volta -
sempre disperso nell'attesa, come se tutto annunciasse
un'amata? ( Dove vorresti custodirla, che i grandi
pensieri stranieri in te vengono, vanno, e indugiano
spesso di notte ). Se lo vuoi, canta allora le amanti;
non è ancora immortale il loro sentimento famoso.
Quelle che tu quasi invidi - le abbandonate - a te
più care delle appagate. Ricomincia sempre
di nuovo l'inattingibile celebrazione; pensa:
l'eroe rimane; anche il trapassare fu per lui
solo un pretesto per essere: la sua ultima nascita.
Ma le amanti l'esausta natura in sé le riprende
di nuovo, come non ci fosse più altra forza per
questo compito. Hai parlato abbastanza  di
Gaspara Stampa, così che una qualche fanciulla,
cui sfugge l'amato, ne senta dentro di sé
entusiasmante l'esempio: e se come lei fossi io?
Non devono forse alla fine questi antichi dolori
diventare fecondi per noi? Non è tempo che amando
ci liberiamo noi dell'amato restando frementi:
come la freccia, che è tesa alla corda, raccolta
nello scatto per essere oltre e più di se stessa.
Perché non c'è più luogo alcuno per stare.

Voci, voci. Ascolta, mio cuore, come solo
i santi seppero udire: loro che l'immane richiamo
solleva dal suolo; e loro in ginocchio,
oltre il possibile, e ancora,e senza badarci :
così essi stavano in ascolto. Non che tu possa
comunque reggere la voce di Dio. Ma ascolta come spira
l'ininterrotto messaggio che dal silenzio si forma.
Sussurra ora a te di quei giovani morti.
E sempre, quando entrasti nelle chiese di Roma
o di Napoli, non ti parlava pacato del loro destino?
O sublime ti si presentò una scritta - come lapide -
l'altro giorno, a Santa Maria Formosa.
Che vogliono da me? Devo rimuovere lievemente
l'apparenza stessa dell'ingiustizia che talvolta
un poco raffrena il movimento puro del loro spirito.

Certo, è strano non abitare più la terra,
non agire più gli usi da così poco appresi,
e alle rose, e alle altre cose piene di promesse
non dare più senso di un umano futuro;
ciò che eravamo in mani illimitatamente ansiose
non essere più, e anche il proprio nome
abbandonare come un giocattolo infranto.
Strano non desiderare più i desideri. Strano
quel che si teneva in mano vederlo dissolto,
fluttuare nello spazio. E penoso essere morti:
un continuo ricercare, faticosamente in traccia
di un poco di eternità. Ma i viventi compiono
tutti l'errore di tracciare troppo confini netti.
Gli angeli ( dicono ) spesso non sanno se vanno
tra i vivi o tra i morti. L'eterna corrente
trascina attraverso entrambi i regni ogni età
- sempre con sé - ed entrambi sovrasta con il suo suono.

Non hanno più bisogno di noi i giovani morti, da ciò che è
terreno
ci si disavvezza lievemente, come dolcemente si cresce ( oltre
il seno materno. Ma noi, che di così grandi segreti
abbiamo bisogno; noi a cui sovente un beato progresso
si sprigiona dal lutto : possiamo essere senza di loro?
Vano è forse il racconto, che un tempo nel compianto
la prima musica audace pervadesse l'impietrito rigore;
che allora nello spazio sgomento, da cui sfuggì quasi ( divino
un fanciullo - d'improvviso e per sempre - il vuoto entrasse in
quella vibrazione, che ora trascina,consola e ci aiuta.


             Rainer Maria Rilke    da      Elegie duinesi