"Cras amet qui nunquam amavit;
quique amavit, cras amet".
***
"Domani ami chi non ha mai amato;
e chi ha già amato - domani - torni ad amare".
Carme di anonimo latino del II sec. in onore di Venere
Veglia di Venere: poemetto latino di 93 settenari trocaici, anonimo, variamente datato tra il sec. II e il sec. IV e, di volta in volta, attribuito a Floro, Apuleio, Nemesiano, Tiberiano. È un inno a Venere, dea dell'amore e forza vivificatrice della natura, da intonare in occasione della festa notturna (pervigilium) ai piedi dell'Etna, in Sicilia, per festeggiare l'arrivo della primavera. Interpretato come canto popolare o carme dotto, è suggestivo nella semplicità che nasconde un'arte raffinata. Proposto in italiano, in versi martelliani, viene qui presentata una traduzione/reinterpretazione con 10 numerose integrazioni e brevi aggiunte. Sostanzialmente fedele all’originale latino fino alla penultima stanza, nell’ultima si rilevano le differenze più marcate. L’autore ha introdotto, arbitrariamente, alcuni versi in più ed esteso quelli esistenti, dando completezza alla tragica leggenda di Tereo, chiamando anche Procne (rondine) quale diretta protagonista, insieme alla sorella Filomela (usignolo), a partecipare alla celebrazione e alla gioia della Primavera incipiente. Il breve congedo dell’autore latino, alla fine, è stato riscritto quasi completamente, adattandolo alla malinconica chiusura del canto. La versione italiana, pur discostandosi qua e là, dove più dove meno, dall’originale è stata composta con il proposito di restare fedeli - anche a costo degli scostamenti detti " allo spirito " della composizione originaria, come naturalmente sentita - oggi - dal traduttore.
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