domenica 2 dicembre 2018

ALLA FINE DELLA VITA ( Morire in Italia ) 2



(…) La seconda grande differenza tra il passato e il presente
       riguarda la comunicazione fra il malato e gli altri: il medico,il
      sacerdote,i familiari.Nella società moderna, il tema della morte
       non è bandito solo nelle conversazioni fra adulti o  dalle
       spiegazioni date ai bambini.Lo è anche -.in maniera maggiore-
       nei rapporti con gli ammalati preoccupati per la propria
       salute, e nei confronti dei quali si attua una sorta di " congiura
       del silenzio". A differenza di un tempo, quando una persona
       sentiva e sapeva che la fine si avvicinava, oggi si fa il possibile
       per tenerla all'oscuro di tutto,per mentirle.Già Sigmund Freud,
       alla fine dell' Ottocento, scrisse di aver notato questo
       cambiamento :

     " L'arte di ingannare i pazienti non è certamente molto
        consigliabile. Fino a che punto ci si è spinti nei confronti
        dell'individuo? e quanto lieve deve essere l'influenza del credo
        scientifico, che si suppone abbia sostituito la vecchia
       religione, se non si osa più nemmeno rivelare ch' è giunta l'ora
        della morte per questo o quell'essere umano?
      A un cristiano per lo meno si somministra l'estremo sacramento
        ancora qualche ora prima della morte.
        In Shakespeare si dice:"Sei debitore alla natura di una morte"
        Spero che - quando giungerà la mia ora - possa trovare
        qualcuno che mi tratti con più rispetto e che mi dica quando
        devo tenermi pronto".

       Dalla seconda metà dell' Ottocento, secondo Ariès ( storico
       francese, importante medioevalista e studioso della famiglia e
       dei costumi sociali, n.d.r. ), si registra un mutamento nel
       rapporto fra il moribondo e gli altri.Da allora, il primo dovere
       dei familiari e del medico diviene quello di tener nascosto al
       malato inguaribile la gravità del suo stato. La nuova usanza
       impone che si muoia nell'ignoranza della morte. Il paziente
       diventa allora " un essere sotto tutela " come un bambino o un
       malato di mente, che i familiari separano dal mondo e che
       privano di tutti i diritti e in particolare di quello di conoscere
       le sue condizioni di salute e il momento della propria fine per
       prepararla e organizzarla. E lui si rimette alla loro volontà,
       perché sa di essere amato e suppone che tutto quanto fanno i
       suoi familiari sia per il suo bene. Ma a tratti sospetta o si
       accorge che tutte le persone che gli stanno intorno e lo curano,
       i familiari, gli amici, i medici, lo ingannano.  (…)


       Marzio  Barbagli  da   Alla fine della vita ( Morire in Italia )

4 commenti:

  1. È molto concreto e reale, vorrei aggiungere due punti:il primo che è fondamentale capire cosa vuole il paziente, se vuole essere informato sulla diagnosi (la prima omissione o menzogna è qui, ho assistito e incontrato diversi pazienti terminali a cui non era stato detto nemmeno la reale diagnosi, ma un castello di bugie per volontà dei familiari e assecondato dai medici, quando la volontà dei parenti conta e/o viene prima e di più dei malati, se sono coscienti di intendere e volere? Troppe decisioni si basano sulla volontà dei familiari, che presumono di sapere tutto) e sulla prognosi, per capirlo non ci si può basare sulla volontà dei parenti, ma costruire una relazione medico-paziente che è alla base di tutto e sottintende tutte le fasi e le decisioni, il tempo c'è o si dovrebbe trovare e nel servizio pubblico, che dovrebbe rivedere anche i 15 minuti a visita previsti dal sistema, la cura dei pazienti richiede anche tempo non può funzionare a catena di montaggio.
    Il secondo punto è accettare che non tutti possono essere guariti, per cui è importante capire dove sono i limiti tra curare/prendersi cura e accanimento inutile e dannoso, in modo da attivare le cure palliative per creare le condizioni per assistere e accompagnare fino alla fine senza soffrire, se possibile a casa altrimenti in strutture idonee dove i familiari hanno libero accesso h24. Mi permetto di aggiungere anche che non sempre è possibile morire nelle condizioni migliori, pensiamo alle vittime di incidenti stradali, di traumi, aggressioni, malori in strada ecc... Si arriva in ospedale (se non muori sul colpo o in ambulanza) e si fa il possibile per salvare, ma è molto probabile finire in rianimazione attaccato alle macchine, non per volontà di medici o familiari, ma per le condizioni in cui si arriva e si deve intervenire, insomma generalizzare quando si parla di vita e morte non è saggio

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  2. Grazie per questo tuo commento da " persona a conoscenza dei fatti ", come si dice.
    C'è un'altra osservazione che mi sento di fare dopo aver letto il libro e che è in aperto contrasto con ciò che sta scritto: cioè che si tende ( attraverso una complicità difensiva tra medico e familiari ) a non dire la verità al paziente per non angosciarlo e non precipitarlo nella depressione difronte ad una diagnosi infausta definitiva.
    Orbene, vuoi ( non dico che siano cambiati i tempi perché il testo è di quest'anno )che la situazione sociale sia cambiata e ci siano sempre più persone single ( senza supporto familiare ) che si occupano personalmente della propria salute;, vuoi che la famiglia ha dismesso il ruolo protettivo- difensivo che aveva un tempo; sta di fatto che sono sempre più i casi ( ne ho conferma diretta ) di pazienti che - difronte ad una prognosi infausta - si sentono dire dal cosiddetto " curante" :" Lei ha tot mesi di vita !".
    Vogliamo cercare di capire cosa può accadere nella psiche di una persona non preparata all'idea di morire a breve? ( ma c'è qualcuno che sia " preparato? " ):
    un cataclisma, un terremoto emotivo di dimensioni immani.
    Io penso allora che fra i due estremi della situazione, ci siano varie vie di mezzo, ma soprattutto che il medico torni a " curare la persona " nella sua interezza, così come era un tempo ( magari con meno competenze, ma più umanità ) e come il buon senso nonché la deontologia della professione ( da Ippocrate in poi ) richiederebbe.

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    1. Il medico è tenuto per legge ad informare il paziente e lo stesso anche in base alla legge sulla privacy e fin qui ok, il problema è COME questa bomba di notizia viene comunicata, se dentro una relazione, con tempi e modalità che diano tetem al paziente di capire cosa ggl è stato detto, perché è forte e rimangono storditi sul momento e non sono spesso in grado di proseguire, la loro mente anestetizza tutto e si ferma su poche terribili parole, va dato tempo e luogo al paziente per metabolizzare, accertandosi prima che non sia da solo, ricordo un caso di molti anni fa dove era stata detta una diagnosi di tumore, appena il paziente è rimasto solo si è buttato dalla finestra. Prima di comunicare certe cose bisogna creare determinate condizioni, comunque farlo non è facile, anzi (ho partecipato durante un corso sul fine vita ad una simulazione di comunicare una cattiva notizia, ovvero che il tumore era ormai terminale, con tanto di ripresa video, io ero in difficoltà per la mia riservatezza, ma quando è iniziata la simulazione ho dimenticato tutto intorno ed ero rapita dalla mia "paziente", è stata talmente brava, con tanto di pianto che sono andata nel pallone, ogni modalità sembrava aumentare l'ansia e la sua disperazione, fallimento completo, ho ringraziato Dio di essere solo un'infermiera e di non dover essere io a dare "cattive notizie", anche se poi mi è capitato, me la sono cavata meglio ma il dolore dell'altro è difficile da sostenere e sopportare. I medici devono essere formati nella comunicazione perché di fatto non avvienea invece è fondamentale...

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  3. Ti ringrazio per queste tue preziose testimonianze frutto di esperienza personale. Spero che servano a far riflettere chi dovesse trovarsi a transitare in questo sito.
    Perché - che lo si voglia o no - il problema del Fine-Vita riguarda tutti.

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