(...) Il nostro tempo sostiene- in diverse forme - la necessità del dialogo tra genitori e figli come principio educativo prioritario. Di fronte al lento, sebbene traumatico, processo di erosione dell'autorità paterna che ne ha visto dissolvere ogni versione padronale, il dialogo sembra aver preso giustamente il posto del comando brutale che avevano caratterizzato il volto tristemente noto del padre- padrone . Un cambiamento epocale è avvenuto: padri e figli si trovano in una prossimità sconosciuta sino a poco tempo addietro. I padri non sono più il simbolo della Legge ma - come le madri - si occupano anche del corpo, del tempo libero e degli affetti dei loro figli. Questa prossimità - effetto del giusto indebolimento dell' autorità paterna - può essere certamente salutata come una positiva emancipazione del discorso educativo da princìpi normativi eccessivamente rigidi. Mai nessun tempo come il nostro ha dedicato tanta attenzione premurosa al rapporto tra genitori e figli. Il figlio assomiglia sempre più a un principe al quale la famiglia offre i suoi innumerevoli servigi. Il rischio è che questa premura inedita giustifichi un'alterazione della differenza simbolica che distingue i figli dai genitori: i figli rivendicano la stessa dignità simbolica dei loro genitori, gli stessi diritti, le stesse opportunità. In questo modo la prossimità che caratterizza il nuovo legame tra genitori e figli rischia di avallare una vicinanza di eguali - o peggio - una sorta di immedesimazione confusiva frutto di un' orizzontalizzazione del legame che smarrisce così ogni senso di verticalità. La retorica pedagogica del dialogo - oggi imperante - è , ai miei occhi, un effetto macroscopico di questa confusione. Lo stesso discorso vale per la parola " empatia" divenuta egemone e imprescindibile in ogni ragionamento psico- pedagogico. Una supposizione di fondo ne sostiene un uso inflazionato: parlare con i figli significa capire i figli, riconoscersi in loro, condividere le loro gioie e le loro sofferenze- insomma - vivere la loro vita. Non è questo il modello politically correct che deve essere sostenuto e diffuso? E chi - del resto - si sognerebbe di negare l'importanza del dialogo e della comprensione empatica nel rapporto tra genitori e figli? (...) Massimo Recalcati da Il segreto del figlio
(...) In questo libro, attraverso la lettura di due celebri figli e del loro complesso rapporto con i rispettivi padri - l' Edipo di Sofocle e il Figlio Ritrovato della parabola evangelica di Luca , si vuole problematizzare criticamente questo esito del discorso educativo ipermoderno, provando ad indicare l'esistenza di un'altra strada. Non quella della valorizzazione, spesso solo retorica, del dialogo e dell'empatia, ma quella del riconoscimento che la vita di un figlio è innanzitutto una vita altra, straniera, distinta, differente, al limite, impossibile da comprendere. Il figlio non è forse un mistero che resiste ad ogni sforzo di interpretazione? Un figlio non è precisamente un punto di differenza, di resistenza, di insorgenza incontenibile della vita? E non è questa la sua bellezza fulgida e insieme minacciosa? Non è - la sua vita - un segreto indecifrabile che deve essere rispettato come tale? (...) Massimo Recalcati da Il segreto del figlio
(...) L' enigma del figlio è ciò che inquieta il padre di Edipo, Laio - avvertito dall'oracolo che suo figlio sarà destinato a diventare il suo assassino e il possessore della sua sposa - al punto da spingerlo a prendere la terribile decisione di ucciderlo. Nel mito di Edipo, Laio reagisce al suo destino di morte- per mano del figlio - esigendo la morte del figlio. Egli non è in grado di riconoscere in lui il mistero minaccioso e al tempo stesso fulgido e fecondo che ogni figlio è per i suoi genitori. La vita del figlio non deve forse oltrepassare quella di chi lo ha generato, non deve sancirne la morte, il tramonto inevitabile? L'oracolo, quando predice il destino di Edipo, non sta svelando a Laio una verità inaggirabile e universale del rapporto tra padri e figli? Il carattere " minaccioso" di ogni figlio - come quello di ogni allievo per un maestro - non è ciò che impone ineluttabilmente la morte delle proprie origini, dei propri padri? Il figlio, nella sua venuta al mondo, non ricorda a chi lo ha generato il suo destino mortale? La vita del figlio non segnala forse sempre l'illimitatezza della vita e - di conseguenza - l'incombenza della fine che essa, come Hegel aveva indicato con vigore, rivela ai suoi genitori? (...) Massimo Recalcati da Il segreto del figlio
(...) Questo libro prende le mosse da una rilettura delle vicende narrate nell' Edipo re di Sofocle e nella parabola lucana del figlio ritrovato, che hanno entrambe come presupposto l' intreccio dei destini dei figli e dei padri. La colpa del padri ricade sempre sui figli? L'assenza di desiderio nei genitori rende un figlio necessariamente maledetto, lo esclude inesorabilmente dall'accesso al desiderio? E quale Legge viene trasmessa da una generazione all'altra? La Legge del destino che sigilla la vita del figlio come ripetizione colpevole di quella dei padri o un'altra forma della Legge che ci invita a sospendere ogni inesorabilità della Legge? Edipo e il figlio ritrovato indicano l'oscillazione del processo di filiazione tra questi due poli. Il figlio Edipo resta imprigionato in un conflitto simmetrico con il padre senza possibilità di soluzione: infanticidio e parricidio si corrispondono specularmente. Il padre del figlio ritrovato, diversamente da Laio, mostra invece di saper sopportare il reale incondivisibile che la vita del figlio incarna. Egli non risponde al gesto " parricida " con l'odio, ma sceglie di dargli fiducia, di non ostacolare il suo viaggio. A differenza di Laio, egli mostra di non temere, ma di amare profondamente il segreto assoluto del figlio. Il figlio ritrovato incontra nel gesto del perdono del proprio padre che lo accoglie al suo ritorno, una dissimmetria che spezza ogni legame con una concezione della Legge come destino o pena inesorabile che schiaccia invece la vita di Edipo Questo padre sa riconoscere l'enigma del figlio senza esigere di risolverlo; egli si offre con una Legge il cui fondamento non si trova in alcun Codice, ma solo nell'atto stesso del perdono come forma più alta della Legge, come libertà della Legge. E' ciò che il figlio impara sulla sua carne viva: non è l'uomo che è fatto per la Legge, ma è la Legge che è fatta per l'uomo. (...) Massimo Recalcati da Il segreto del figlio
(...) Il figlio incarna l'incondivisibile differenza della vita e la sua forza illuminata.Egli resiste ad ogni possibile immedesimazione empatica. Si muove nel mondo portando con sé non solo l' irriducibile differenza della sua generazione rispetto a quella dei genitori, ma anche la particolarità più inafferrabile della sua esistenza. Il dono del padre della parabola lucana - che è anche il dono più grande che ogni genitore può offrire ai propri figli - è il dono della libertà. Il padre non esige il dialogo - la comprensione reciproca - ma riconosce il desiderio del figlio come un enigma indecifrabile. E questa indecifrabilità non è forse un'esperienza costante di ogni genitore?Ma non è proprio da qui che sorge l'amore come apertura assoluta al mistero dell'alterità del figlio? Il rispetto per il segreto del figlio non indica forse che la genitorialità non è mai un'esperienza di acquisizione e di appropriazione, ma di decentramento di sé ? L'amore non è empatico, non si fonda sulla comprensione reciproca e sulla condivisione, ma è rispetto per il segreto assoluto dell' Altro, della sua solitudine; l'amore si fonda sulla lontananza della differenza, sull'incondivisibile, sul reale inassimilabile del Due. Ciò vale nel rapporto tra genitori e figli e ancora di più in ogni legame d'amore. La psicoanalisi autorizza ad affermare che i legami d'amore che sanno durare nel tempo ed essere generativi, sono quelli che non sciolgono mai l'enigma del desiderio dell' Altro, che sanno custodire il segreto assoluto - impossibile da comprendere - dell' Altro. Solo sullo sfondo di questa solitudine, di questo enigma che ciascuno è e deve restare per l' Altro - oltre che per se stesso - può darsi un essere in rapporto all' Altro, un essere insieme all' Altro . (...) Massimo Recalcati da Il segreto del figlio
(...) Osservo la vita dei miei figli crescere, diventare autonoma e farsi ai miei occhi sempre più misteriosa. Penso che questo mistero sia il marchio di una differenza che deve essere preservata e ammirata anche quando può sembrare sconcertante. Resto sempre stupito di fronte alla loro bellezza e al loro splendore come di fronte al loro disordine e alla loro indolenza. Infinitamente diversi da come ricordavo la mia condizione di figlio, eppure così incomprensibilmente uguali. Non pretendo di sapere o di comprendere nulla della loro vita, che giustamente mi sfugge e mi supera. Nel camminare fianco a fianco - nel silenzio dei nostri corpi vicini - percepisco il rumore del loro respiro come una differenza inesprimibile. E' un fatto: ogni figlio porta con sé - già nel suo respiro - un segreto inaccessibile. Nessuna illusione di condivisione empatica potrà mai venire a capo di questa strana prossimità. La gioia tra noi accade proprio quando l'incondivisibile che ci separa genera una vicinanza senza nessuna illusione di comunione. I nostri figli sono nel mondo - esposti alla bellezza e all'atrocità del mondo - senza riparo. Sono - come noi tutti - ai quattro venti della vita nonostante o grazie all' amore che nutriamo per loro. Non so davvero nulla della vita dei miei figli, ma li amo proprio per questo. Sempre alla porta ad attenderli senza però mai chiedere loro di ritornare. Vicino non perché li comprendo, ma perchè stimo il loro segreto. (...) Massimo Recalcati da Il segreto del figlio
Camminando tra le brezze, essere il porto degli uccelli...
Se non sono radice, e solo questo, ahi, quando si vedranno il mio stelo e i miei fiori, e quando nasceranno i frutti? Quale giorno attende il tempo, quale l'aria, e perché Dio mi vuole lancia oscura nella sua dura terra? Non è che non voglio più essere radice quando già posso essere tronco, foglie, rami, dei miei fiori più belli. Frutto fra i denti degli uomini, voglio continuare ad essere radice. Spiccare il salto trascinando terra e unirla al cielo. Sempre radice, tra il grano scuro come ora sono scura. Ma andando verso il regno del volo, camminando tra le brezze, essere il porto degli uccelli, il legno della trave, e che le coppe si colmino del mio corpo e della mia essenza. Se non spero di essere fiore, aprimi in frutto, avere tra le mani terra e cielo, vibrare come colonna fra i due. Tu Dio, tu che mi hai creato, non costringermi ad essere una radice della terra: radice, solo radice, profonda radice. Carmen Conde da Senza Eden
"La vita fà l'analisi; la morte si incarica della sintesi."( Robert Sabatier )
MEMORIA, LUTTO E OBLIO (...) Riguardo al grande tema della memoria e del suo rapporto con il lutto e con l'oblio, in psicoanalisi, il problema della " dissoluzione dell'oggetto " è al centro di ciò che Freud ha definito come lavoro del lutto : la semplice presenza lascia il posto all'esperienza dell'assenza. E non è forse questo l'elemento primario del lutto? L'affetto luttuoso non segnala la perdita dell'oggetto, il suo assentarsi definitivo e senza ritorno? L'oggetto perduto scivola nel regno dei morti, non è più con noi, ci ha abbandonato. La perdita reale dell'oggetto amato ( " sovrainvestito narcisisticamente" secondo Freud ) rende possibili due diverse reazioni: quella di chi non riesce a liberarsi dal vincolo con l'oggetto perduto e si trascina addosso la sua ombra pesante, smarrendosi e tormentandosi per la sua assenza irrimediabile e, dall'altra parte, quella di chi opera un lavoro della memoria attorno al vuoto lasciato dall'oggetto perduto; un lavoro che richiede certamente tempo, dolore e fatica psichica ma che, una volta compiuto, può permettere l'elaborazione simbolica del trauma della perdita e il ritorno alla vita. Secondo Freud, la prima reazione si definisce come reazione melanconica , la seconda descrive invece l'esperienza del lutto come lavoro . Ma mentre nella reazione melanconica il soggetto non è mai giunto a un'esperienza radicale dell'assenza dell'oggetto perché esso è rimasto sempre presente , anzi è diventato, pur nella sua assenza materiale, una presenza insistente che assilla la vita del soggetto e impedisce qualsiasi progettazione dell'avvenire ( infatti, nel sentimento melanconico tutto resta inchiodato al tempo della perdita, tutto è perduto, tutto è già avvenuto ), nel lavoro del lutto l'assenza dell'oggetto è simbolizzata come tale . (...) Massimo Recalcati da Il mistero delle cose
(...) La memoria dell'oggetto è necessaria, ma solo per lasciare andare l'oggetto al suo destino. E' l'incorporazione simbolica dell'oggetto che rende possibile la percezione della sua radicale assenza. La rievocazione psichica dell'oggetto pretende tempo e dolore, esercizio della memoria, ma solo per permettere al soggetto di assumersi realmente l'assenza irreversibile dell'oggetto. Questa memoria, ossia la memoria del lutto, insegue uno scopo paradossale: vuole ricordare e , al tempo stesso, dimenticare . Al culmine dell'opera della memoria - del ricordo che restituisce una consistenza all' oggetto che non è più con noi - per Freud deve realizzarsi in una specie di oblio dell'oggetto che concede una nuova possibilità alla vita districandola dall'ombra dell'oggetto perduto. E' questo il paradosso interno alla concezione freudiana del lutto : il supplizio della memoria deve venire a conoscenza, nel suo punto più estremo, di un tempo di oblio, di una dimenticanza felice che non estromette la memoria - non corrisponde alla semplice rimozione di ciò che è doloroso ricordare - ma è un prodotto fecondo della memoria che permette di arrestare la ripetizione silenziosa del suo agire malinconico . (...) Massimo Recalcati da Il mistero delle cose
Vali più tu coi tuoi piedini piatti d'orsacchiotta coi tuoi occhi asimmetrici col tuo codino d'anatroccola che alzo quando bacio la tua nuca vali più tu con tutti i tuoi malanni i tuoi veri spaventi immaginari con la tua contentezza appresa dalla vita ( e non ti fu mai tenera! ) vali più tu indifesa di me che mi difendo vale più un tuo sfogo del mio star zitto vale più un tuo sogno di una mia conquista vale più un tuo sabath di una mia domenica vale più la tua fame del mio appetito vale più un tuo detto di un mio verso vale più un tuo accenno sghembo di una mia rima vale più la tua mente fresca della mia mente libresca vali più tu che canti la tua Tosca vali anche più tu con me vicino. Nelo Risi da Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa
MANGANELLI (...) A quindici anni venni mandata a Torino per una grave anoressia iniziata durante la guerra a causa della vera fame che si era provata e aggravatasi per il dolore causatomi dall' interruzione degli studi ordinata da mia madre. Era nato mio fratello e non c'era da mangiare per tutti. I miei zii mi fecero curare dai migliori neurologi di Torino, ma non volevo guarire. Afflitta da una tremenda cecità isterica, un giorno il dottor G . alle Molinette ebbe una pensata: mi mise in mano un libro e mi ordinò bruscamente di leggerlo. Lo guardai negli occhi e nacque dentro di me La presenza di Orfeo . Una volta guarita, ripresi la via di casa ed esplosi in tutta la mia salute e bellezza. Fu in quel periodo che incontrai Manganelli e me ne innamorai perdutamente. Manganelli - secondo me - era un grosso chierico, un grosso ambulante del pensiero, amorevolissimo e casto come tutti i veri intellettuali. Malgrado fosse già sposato, sembrava un ragazzo alle prime armi: aveva paura di toccarmi e non sapeva come dirmi che mi voleva bene. Mi affidò alle cure di Fornari ( Franco Fornari, psicoanalista allievo di Musatti, n.d.r. ), il quale volle che andassi a lavorare per pagarmi l'analisi che durò esattamente cinque anni. Tra me e Fornari nacque un feeling meraviglioso che gli ispirò Carmen adorata . Difatti io ero una zingara, nerissima di capelli, vivace e un po' strafottente. Sarà Fornari a dirmi quelle parole magiche che io riporto nel Diario : " Il manicomio è come la rena del mare: se entra nelle valve di un'ostrica genera perle". La passione per Fornari mi sconvolse. Finii col litigare con Manganelli e tra i due corsero male parole. Io stessa offesi Fornari. Il mio terzo uomo divenne il Manicomio. La Bacunina - come mi chiamava Manganelli per il mio carattere ribelle - sarà rinchiusa. Manganelli, non riuscendo ad ottenere un divorzio consensuale dalla moglie e vedendosi portar via la figlia, fuggì da Milano su una lambretta che tenne poi con sé per tutta la vita. Quando egli morì, mi successe un fenomeno strano ogni giorno mi si slegavano le scarpe. Ero io che a Manganelli, quasi obeso già da giovane, legavo sempre le scarpe. Per consolarmi della fuga di Manganelli finii tra le braccia di Quasimodo che, riuscendo ad amare tre o quattro donne alla volta, era più permissivo. Con Quasimodo ebbi una relazione molto dolce ma non di grande importanza ed è caduta in semi - oblio anche perché gli psichiatri non l'hanno presa in considerazione e non esistono relazioni scritte da medici in proposito. (...) Alda Merini da Reato di vita ( Autobiografia e poesia )
LE PRIME NOZZE (...) Mia madre lasciò che mi sposassi prestissimo, mentre si era opposta quando avevo chiesto di entrare in convento. Mio padre si oppose, ma lei fu molto decisa e disse giustamente che la vita in famiglia di una madre è molto più meritevole ed onerosa di quella dei santi e non c'è grazia che possa illuminare una madre se non quella che viene direttamente da Dio. Fu così che Dio entrò nel mio matrimonio, un matrimonio cercato per sfuggire alla bramosia dell'esistenza che voleva la mia carne e la mia giovinezza per farne un tripudio di vana gloria. Si trascura spesso nelle mie biografie e nelle interviste il mio matrimonio con Ettore, durato una quarantina d'anni, che viene ad essere confuso con quell'atroce silenzio di cui mi si fa carico. In realtà solo dieci di questi trentanove anni furono passati in casa di cura e soffro quando sento che lo si vuole accusare di aver lasciato che mi ricoverassero, perché non credo che avrebbe voluto regalarmi quelle atrocità. Anche le mie figlie sono d'accordo nel ricordare un padre amorevole e premuroso sebbene assolutamente incapace di badare alle faccende di casa. Se qualcuno volesse vantarsi di avermi ricostruita, farei notare che io ero costruita ancora prima della nascita e la mia vita non sta nelle mani dei medici come non stava in quelle di mio marito, ma in quelle del destino. Mio marito Ettore era un uomo virtuoso, elementare, se per elementare si intendono gli elementi della natura. Non era un eroe da leggenda costruito sulla falsariga di ignobili date. Il suo realismo mi tenne sempre in piedi. Se è vero che - a suo tempo - mi fu dato anche qualche salutare scapaccione, lo ha fatto un po' punto dalla gelosia, ma soprattutto per tenere viva in sé quell'immagine virile alla quale sono poi stata fatalmente fedele. Quando madonna Follia ci prende alla gola, quando si sogna, avviene fatalmente una sfocalizzazione della realtà: l'uomo cade in un panteismo divino e non capisce più quando è ora di adeguarsi al ritmo della vita o - come il filosofo - vi ha già rinunciato. (...) Alda Merini da Reato di vita (Autobiografia e poesia )
IL PORTINAIO (...) Da adolescente avrei voluto degli altri genitori e anche Manganelli la pensava come me. Forse eravamo enfants maudits , figli maledetti, cioè poeti. Quell'arco tentacolare, quell'abominevole Edgar Allan Poe che era stato sia in me che in Magrelli, si mostrò qual era: il vero inferno della mente.Quindi il Portinaio, da presenza metafisica, diventerà poi anche presenza reale. Il Portinaio in questione era il Manicomio e anche personaggio di questi racconti del " durante l'elettrochoc " che forse non riuscirò mai a raccontare Vedere il portinaio reale è come accantonare le memorie più belle e più vive dell'esistenza per far posto alle brutture. E l'araba fenice che rinasce in me ogni mattina non poteva che inventare il Delirio Amoroso . Ho durato fatica in tutti questi anni a cercare di capire se il Portinaio intrigante e padre R. avessero visitato il mio corpo oltre che la mia mente, ma non ho avuto risposte soddisfacenti, solo derisioni e ammiccamenti. E così bianco e nero, giorno e notte, riposo e tortura sono l'alternativa di quella che viene chiamata schizofrenia. E non è vero che la schizofrenia genera arte, la schizofrenia è un baratro ed è una crepa simultanea tra omertà e intelligenza. C'è un silenzio voluto nell'anima che non confessa neanche a noi i nostri amori e i nostri grandi dolori, e su questo doloroso silenzio si instaura vincente ogni Portinaio reale, il vero prezzo del manicomio. Quindi abbiamo eremiti, selvaggi, pensatori, ma soprattutto abbiamo preghiere non dette, non recitate e pensieri inconfessati. (...) Alda Merini da Reato di vita ( Autobiografia e poesia )
PADRE TUROLDO (...) David Maria Turoldo, al quale ho dedicato varie poesie, come me fu un avido sognatore. La sua figura mi ha sempre entusiasmata, ma anche intimorita. Fu chiaro il distacco netto che aveva dal peccato, come poteva averlo un blasonato rispetto ad un qualsiasi cencio. Clamoroso in se stesso, David amò fino allo spasimo la sua " conversione " religiosa" e fu anche accusato di violenza verbale. La violenza verbale che - in termini aulici - si chiama oratoria, probabilmente non piacque alla chiesa, ma l'anima non può ribellarsi ad un certo tipo di potere? Turoldo era un uomo secondo me bellissimo, ma non nel senso classico della parola. Era un innovatore, in un certo senso un secolare convinto. Imperava con De Piaz, suo stretto collaboratore e i suoi molti discepoli culturali alla Corsia dei Servi, che fu anche un mio punto di incontri. Cenacolo di aiuti spirituali e morali, di positivi insegnamenti evangelici e soprattutto di cultura, era anche ricettacolo di belle dame. Voglio ricordare una cosa che ancora oggi mi stringe il cuore: dopo vari miei tentativi di piegare David a sentirsi santo, quel mio continuo chiedergli grazia, finì per irritarlo. Non voleva assolutamente essere considerato un uomo diseguale, diverso. Difatti scrisse Gli ultimi , una delle sue opere più dolorose, ma anche più umane. Al Costanzo Show parlai di David rispetto all'eutanasia. Egli l'aveva invocata, ma la Chiesa gliel'aveva rifiutata, perché non si può intervenire sulla volontà divina. Ci sono momenti di così grande dolore nei quali il poeta vuole fare giustizia di se stesso, anche rispetto alla vita. Forse nessuno ha capito che David era ansioso di raggiungere il suo Dio, come tutti i santi che buttano via la scoria umana per diventare solo anima. Turoldo, miracolo di vita, si spense - non ricordo esattamente dove e quando - ma so che lasciai la mia casa e corsi a vederlo ormai devastato dal male. Quel giorno spericolato di assoluto amore per lui e per la sua poesia, scivolai malamente per le scale per fare in fretta e mi feci male: fu forse questo il primo miracolo di David? Rimasi con Scheiwiller e uno stuolo immenso di fedeli sul sagrato ad attendere l'arrivo del cardinale per più di due ore, con quell'insopportabile dolenzia e con un freddo terribile. Persino i cavalli imbizzarrirono per il freddo. (...) Alda Merini da Reato di vita ( Autobiografia e poesia )
LE SECONDE NOZZE (...) Giacinto Spagnoletti fu colui che, senza volerlo, combinò il mio second matrimonio con Michele Pierri. Michele Pierri, fondatore dell' Accademia Salentina, chirurgo valentissimo e a mio parere grande poeta, uscì con Contemplazione e Rivolta contemporaneamente a me e a Betocchi nella Collanina di Schwarz. Tra me e Pierri nacque in tarda età una grande passione amorosa, all'inizio puramente telefonica, che i figli non capirono. Capì invece Ettore, mio marito, ormai gravemente malato; parlò con lui: " Le affido mia moglie, ne abbia cura e le faccia da padre". Ogni mattina Michele arrivava nella nostra stanza nuziale con il caffè, una rosa sul vassoio e una poesia d'amore. Io lo sgridavo perché rovesciava il caffè sulle lenzuola e soprattutto perché non mi lasciava dormire. Alle cinque del mattino Michele era già in piedi e faceva il giro di tutte le chiese lasciando oboli e offerte. Io cercavo di impedirglielo, non per gli oboli, ma perché mi lasciava sola per almeno tre ore in quella casa vuota e io tremavo di paura. Era una casa antica, trasandata e piena di stanze comunicanti. C'era dappertutto il ritratto della prima moglie, uno anche sopra il letto matrimoniale. Avevo rispetto per " la povera Rebecca": trovavo che mi assomigliasse con quegli occhi inquieti e decisi. E se da un lato i figli mi erano grati per aver lasciato intatta la memoria della madre, dall'altra Michele era inquieto perché tenevo i miei abiti in una valigia. Ogni sera i figli si riunivano al tavolo comune e ricordavano la defunta. Io non ero gelosa della memoria di questa donna - medico anch'essa - le cui poesie d'amore, che io segretamente lessi, erano le più belle che avessi mai letto. Michele, che in gioventù era stato imprigionato per antifascismo, era un uomo straordinariamente somigliante a Raboni, un grande guru bianco, con i capelli che gli scendevano fin sulle spalle. Era un uomo terrificante: tutti gli obbedivano ed era di una straordinaria bellezza anche se già ottantenne. Quando era venuto a prendermi alla stazione di Taranto per il matrimonio, io non lo avevo mai visto di persona, ma lo riconobbi subito, e anche lui perché per quattro anni ci eravamo ardentemente amati al telefono. Allora io avevo un pianoforte, appoggiavo il ricevitore al calorifero e gli suonavo le più belle romanze d'amore. Fino all'una di notte continuavamo a parlarci da lontano. (...) Alda Merini da Reato di vita ( Autobiografia e poesia )
IL DELIRIO AMOROSO (...) Padre R. incarnava la sapienza di Manganelli, l'altezza di Michele,era bergamasco come il mio primo marito, insomma, era il compendio di tutti i miei amori in uno. Ma era un frate, e per giunta molto giovane e convinto della sua scelta. L' amore non consumato tra me e padre R. potrebbe essere rivisto nel Delirio Amoroso come la Recherche di Proust. Considero il Delirio il massimo libro autobiografico che abbia mai scritto finora.Misi mano all' opera sollecitata da Padre Volponi che, vedendomi stremata per la perdita in vita di Michele, mi invitò a raccontare cosa era veramente successo a Taranto e per quale ragione mi sentissi perseguitata dal Portinaio. Ai tempi del " delirio" ho vissuto una delle esperienze più infernali e al tempo stesso più paradisiache della mia vita. La paranoia a quei tempi era diventata preveggenza. Non facevo nulla, assolutamente nulla.Pativo fame e sete come ora. Non dormivo da sei anni. Dio mi aveva concesso di vedere l'Inferno e mai vidi cose così atroci e irripetibili; ma quando Egli mi parlava, la mia vita diventava teatro, un universo intero. Potevo vedere ciò che avveniva di qua e di là del mondo e quando mi svegliavo da queste mie grandi apparizioni di luce - e gli occhi mi bruciavano - ogni persona reale mi sembrava così ignobile e orripilante che piangevo ogni giorno. A volte avevo visioni terrificanti. Sentivo passi su e giù per le scale di qualche turpe individuo che truffava, vendeva , mi desiderava e sicuramente di notte mi violentava. Ma c'erano momenti che mi ripagavano di queste sofferenze, e invece dell' Inferno, vedevo il Paradiso. La stanza si illuminava e sentivo, proprio li sentivo, dei profumi nelle nari come di mughetto, ma non profumi che trovi dal profumiere: erano profumi che mi sembravano legati proprio al Paradiso. Era un'estasi divina, un sentire un godimento che nessuna terrena pratica amorosa potrebbe mai eguagliare. Tanta beatitudine mi scioglieva le ansie quotidiane e mi sentivo un angelo. Tale eccitazione mistica si ripercuoteva sul mio corpo e nessun autoerotismo riusciva a scioglierla. Poi arrivavano " le stigmate", ossia il segno che il Divino mi aveva visitata: era un dolore intenso che subentrava al piacere provato prima, era il dolore di ripiombare nel banale vivere quotidiano e nella mia caduta a terra, anche le mie figure di sogno si incarnavano negli esseri vivi e veri che incontravo. Se allora potevo scrivere pagine ispirate era perché il Divino, di cui nel delirio mistico facevo esperienza, io lo vedevo incarnato in padre R. e il turpe individuo che di notte mi violentava, si incarnava nella figura del Portinaio. (...) Alda Merini da Reato di vita ( Autobiografia e poesia )
Sembri un tramonto, sembri un volto che corre il cielo....
MI SCAVO NELLA TUA DIREZIONE Mi scavo nella tua direzione. Sono io tuo canale. Tuo scorcio sono, bùttati qui. Addosso bùttati. Da quel più strano dove scaravéntati in mare. Voce. Sazia. Serenella. Fa'. Ti presto questa cassa del torace, questi alveoli umani dove il sangue va a bere. Sembri un tramonto. Sembri corteccia e il secco. Tu sembri un volto che corre il cielo. Salute a te. A terre in lontananza consegni la visione. Tu parli adesso in arancione e in rosa. Sono le sette. Tu provieni. indichi un punto di somma luce. Tu. *** ALLENAMENTO CON TE. Scrivere ancora per te. Contro quella tua sponda ho sbattuto nello scontro le tue punte aguzze, le mie - le tue braci. Ho pianto molto - per te. Ho spento in me un'ira scancellante che ti voleva estinto. Una fatica e furia che inghiotte le parole e ne lascia sonore solo poche, confuse ottenebrate. Ma per te è piovuta nel mio fondo un'acqua feconda goccia a goccia da un tempo e adesso sottovoce la notte una gioia balbetta nel petto d'essere insieme abbracciati in un letto del mondo. E tentare, non stancarsi, imparare ancora nelle latitudini terrestri - come fare la traversata, in un fiorendo di compassione e passione, in un amando tutto - di largo - in remissione. Io attendo dolce duro allenamento con te. *** AL MATTINO, UNA MINIERA Al mattino, una miniera si spalanca nella luce del cielo e se guardo su, l'aperto mi conduce verso una sponda di eccelse volute. C'è pace allora dentro questa carne. Bene si cuce ciò che si vede con la parte mancante. Le mie pagnotte si impastano di luce e mangeremo. Una nutrizione potente scuote risveglia le mie arcate. *** ORMAI E' SAZIO DI FERITE Ormai è sazio di ferite e di cielo. Si chiama uomo. Si chiama donna. E' qui nel celeste del pianeta - dice mamma. Dice cane o aurora. La parola amore l'ha inventata intrappolato nel gelo. Perso. Lontano. Solo. L'ha scritta con ditale di rosso in un silenzio caduto giù dalla neve. ***
COMBATTE SEMPRE Combatte sempre con le malinconie nelle pietre ovunque, le porta con sé. Allora dategli petali. Altre cose leggere. Anche se non sa il nome. Salvatelo. Mariangela Gualtieri da Le giovani parole
Così, nella tua scuola, Amor, si face sempre il contrario di quel ch'egli è degno...
Dura è la stella mia, maggior durezza è quella del mio conte: egli mi fugge, i' seguo lui; altri per me si strugge, i' non posso ammirar altra bellezza. Odio chi m'ama, ed amo chi mi sprezza: verso chi m'è umile il mio cor rugge, e sono umil con chi mia speme adugge; a così stranio cibo ho l'alma avvezza. Egli ognor dà cagione a novo sdegno, essi mi cercan dar conforto e pace: i' lasso questi, ed a quell'un m'attegno. Così ne la tua scuola, Amor, si face sempre il contrario di quel ch'egli è degno: l'umil si spezza, e l'empio si compiace. Gaspara Stampa da Rime di madonna Gaspara Stampa
Vissa teco son io molti e molt'anni, con quale amor, tu 'l sai, fido consorte; poi recise il mio fil la giusta morte e mi sottrasse a li mondani inganni. Se lieta io goda nei beati scanni, ti giuro che 'l morir non mi fu forte, se non pensando a la tua cruda sorte che sol ti lasciava in tanti affanni. Ma la virtù, che in te dal ciel riluce, al passar questo abisso oscuro e cieco, spero che ti sarà maestra e duce. Non pianger più, ch'io sarò sempre teco, e, bella e viva, al fin della tua luce venir vedraime e rimenarten meco. Jacopo Sannazzaro da Le Rime ( Sonetti et Canzoni )
Quanto più mi disdegni, più mi piaci e quan' tu mi di' : " Taci", una paura nel cor mi discende che dentro un pianto di morte v'accende. Se non t'incresce di veder morire lo cor che tu m'hai' tolto, Amore l'ucciderà 'n quella paura ch' accende il pianto del crudel martire, che mi spegne del volto l'ardire, in guisa che non s'assicura di volgersi a guardar negli occhi tuoi: però che sente i suoi sì gravi nel finir che li contende, che non li può levar, tanto li ' ncende. Gianni Alfani da Rime