(...) Della poesia di Donaera, bisogna dire che si tratta di una scrittura spigolosa, aspra, ruvida, asciuttissima, che non lascia nessuna concessioni a ingannevoli maggiori gradevolezze di un possibile andamento melodico, ma che sembra fondersi su una serie continua di inserzioni dissonanti, di strappi interni, secondo un'economia stilistica utilmente ardua e internamente violenta. Tutto questo non viene certo a costituire una sorta di pur efficace involucro o di pura ricerca formale, ma risulta coerente con quell'attrito costante rispetto al reale che percorre quasi ininterrottamente i suoi testi. Un attrito che conduce ad un continuo corpo a corpo con il mondo esterno e che mette in evidenza il mistero e l'inevitabile costrizione dell' essere se stesso e solo se stesso, fino all'estremo e chiaramente dichiarato odio di se stesso, dentro la dirompente " paura" delle cose. La controllata violenza espressiva ( crudeltà verrebbe anche voglia di chiamarla ) di Donaera - felicemente sorretta anche da una robustezza culturale che si lascia più che intuire - agisce sulla fisica evidenza delle cose, muovendo da una visione in qualche modo stravolta - peraltro del tutto consapevolmente - delle circostanze vissute e introdotte, nella loro enorme sgradevolezza sinistra . (...) Maurizio Cucchi da Poesia contemporanea
Vado a vuoto di memoria in memoria goffo, come un pinguino rintraccio, poi, un crepacuore. I tuoi dire, si rimarginano, e i discorsi tuoi: a fanfare. Sono grasso, e ne ho vergogna. Seduti, al bar, la piazza, ho le mani sulla pancia, tu sei tutta sorrisi, e tremori, e amori, tutta una generazione di fiori. Prima o poi ti dirò dell'altra notte. Sognai così estremo che fu un averti in casa ( al mattino il tuo dentifricio sull'asciugamani - dove affondai il naso e gli occhi - a chiazze ). *** Quoddam pelagus substantiae infinitum et indeterminatum . Alessandro di Hales Tu sei sopra di me e sei rovesciamento : il gran mare dell'essere - mi anneghi e mi dai forma, forma che non sapevo ( e allora sarò qui, sempre come un devoto, a omaggiarti i capelli, e le dita e la pelle, ma non per questo aristotelico occhio: per questo mio vivere non più vano, da quel giorno: una mano nella mano, e i miei palmi ora screpolati, stigmate di un culto che fa ridere e che mi ha rovesciato ). Scrosta da me questo fango - ti prego- rendimi nitido anche questo lato. *** Tutto in questo me che hai determinato è terra nuova, sorta dall'abbattere di una corderia, terra mai tracciata e ora da mappare, riedificare, tutto in me è un luogo - adesso - che non c'era, questo me, tutto, è un intreccio di dialoghi, rincorrersi di dialettiche piene, la mia tesi solitaria, l'antitesi fatta di tutto il creato tranne te: che sei questa sintesi muta e torbida quando di notte ti cerco, animale perso nel bosco in cerca di una taccia, sento le tue ferite e te le lecco, questo me, tutto, è uno starti poi accanto in un buio muto e torbido, e deboli in questo mio contare finalmente qualcosa che non sia un riempito niente, non solo il crollo di una corderia, ma anche la finzione che " Tu sei mia", e il reale crudo di questa e quella azione - agisco solo perché tu mi sei boia senz'ascia, ultima Occasione. *** Feroce come questo tempo stanco d'attesa, di disordine incubato, solo il gesto che facesti quel giorno, appuntandomi sul petto la mano, sperdendoti nel sonno così - spento tutto mi rimaneva sotto il naso solo la tua luce azzurra di vene: un polso stretto al collo così saldo, feroce come il groppo dell'attenderti, o come le cravatte di mio padre che mi ostino a indossare, e tu lo sai bene questo ostinarsi che è il mio amare. *** Del petto ora mi restano passi e posti che vivi, le liturgie dei parchi, la tua finestra chiusa; di tutto il resto resta un'abiura: eppur ti amo; nel petto ora mi restano i tuoi binari morti in un paese di mare nei giorni di Natale, e al polso poi un elastico mi resta attorcigliato, reliquia tua di un esserci mio mai stato; e sul cuore due metà ricongiunte, fuggite dal patibolo e ora lì in un androgino tutto carne e sudore: noi, che ora non sei qui e sei falla in cui inciampo, suono che tra le scale rimbomba e mai ti svela, noi, noi, che sempre non ci siamo ancora detti tutto. Andrea Donaera da La Madonna che mai appare
Se solo tu sapessi l'urlo della terra che non ti ha...
Adesso questo Sud sei anche tu, il tuo passaggio, il tuo dettame al sole - abbrancato a ogni muro, con l'impeto di cosa che sa di ultima volta, e abbrancata anche tu, una vergine esausta ai lembi del sudario : tu così : alle mie gambe, al mio sesso, ai miei giorni, a ogni luce futura, le tue mani attorno al collo del vivere. Se fossero queste le ultime volte - se fossero tutte quante così - il mondo sarebbe su un orlo sempre, ogni fine avrebbe tutto un godere, e tu, e io : non si sa. Ma forse. Ma forse. *** C'è una terra che ha un sapore ed è terra che è lontana: sotto il tuo passo - vive, sotto il clamore di una te che palpita c'è una terra che sfarina e urlerebbe ( se solo tu sapessi l'urlo della terra che non ti ha, se solo tu sapessi: i tuoi occhi vari, e la loro tremodia, e poi la specie, la specie che sono solamente io, la specie che è guastata senza un tu. *** Sei tu che sei l'autunno, l'acqua sporca e gli esami, i treni e le lezioni, il disagio dell'essere, e poi i fiori di Bach, e i bruciori e lo zenzero: dalla mia stanza uccelli mi svegliano di notte, sono allora tutte albe nere e il soffitto è un foglio, e poi gli alberi tozzi fanno ombre, fanno te, tutta storta, tutta ombra, ed è questo il mio autunno, con dal balcone il negro che rimesta l'organico e lo vedo che piange, lo spazzino è sfocato, l'albergo sprizza lusso, il mio guardare è sterile, il mio ascoltare è stupido: un fischiettare e un chiasso: dentro è uno sferragliare, si può dire catene, si può dire rimorsi, si può dire paure, dentro ho un padre che muore, dentro ho una donna da incontrare: incontrare, te, che sei in autunno, persa, e che non sai niente, che, per dire, sei bella, per esempio, sei bella, ed è tanto, sai, e poi sei bianca, foglio, e scrivo. *** Li avessimo colti tutti, erano però troppi i segni, tanti, tanto da farne una semiotica dell'amare ( e capirne poi magari qualcosa su cos'è ch'è successo qualche mattino fa, dal bagno mi arrivava canticchiante il tuo vivere, e il petto mi si è aperto con un dolore strano da labbro screpolato) e troppi sogni, pure, coi segni sparpagliati, e troppe le realtà ( eri davvero tu seduta sul tuo letto lì dentro al mio cappotto?; ero io che urlavo un " ti amo" sepolto dentro mentre zitti noi studiavamo? ) Procedo così, continuo ( a tentoni ). Potrei non credere più a niente, credo, farmi sacerdote di un culto tuo, fideista di questo amarti insicuro: guardami nel non capirne mai, guarda, tutto questo non capire, e perdona, perdona : le volte che con furia in un gracchiare di rotule rotte scaglierai i ginocchi sulla tua terra, il tuo addome sporcherai del mio pianto, lascerai un segno - almeno - che s'asciuga, uno almeno - soltanto - che non marchia e un po' non ci tortura. *** Sembra tutto un treno: questo patire tra i sedili lividi che colpisco - ne faccio petto da rimproverare, deluso e bruto, una rabbia da padre; sembra tutto un treno: che deve andare, con il suo doveroso sferragliare identico al mio che lo sai: devo riprenderti e non posso, e devo colpire e rimproverare, e sferragliare e patire e sapere: che in una piazza Maggiore ingrigita tra me e te: non è il freddo, ma la vita; devo colpire il cuore come un bimbo il gioco rotto per frustrazione, riperderti e patire e sapere : che nessuno ti è vicino adiacente, che chiunque soltanto ti si avvicina, che nessuno te lo può ricordare: ruba un po' di rossore alla tua coinquilina. Andrea Donaera da La Madonna che mai appare
(...) La poesia in dialetto ha una lunga e gloriosa tradizione nella nostra letteratura, da Belli a Porta,da Di Giacomo a Noventa. Negli anni ' 70 del secolo scorso si assisteva ad un suo revival come autori come Loi, Baldini, Scataglini- Anche allora però l'uso del dialetto faceva storcere il naso a qualcuno:il sospetto che questa scelta costituisse una fuga all'indietro, un alibi, un lasciapassare per dire ciò che in lingua non si poteva più dire. Personalmente ho sempre sentito la poesia in dialetto come un antidoto: antidoto a certe patologie della tradizione in lingua, soprattutto di quella del Novecento. L'aspetto più rilevante mi pare il legame obbligato con un parlante cui si fa implicitamente appello. Al contrario di quella in lingua, la poesia in dialetto mi fa l'effetto di una parola che esce dalla fonte, che è radicata in un locutore, rivolta all'ascolto di un auditorio che la condivide: nella poesia in dialetto, il significante non arriva mai a presentarsi come puro " materiale" disponibile in vista della costruzione di un oggetto estetico: è sempre materia viva di un discorso lirico. Questo si riflette - mi sembra - anche nel ritmo. Nelle poesie di Steffan non si avvertono quei cigolii di argani e ruote dentate, quegli inciampi, quel goffo sgambettare e sbracciarsi che invece caratterizzano i versi assemblati in italiano di tanti suoi coetanei. Il tema portante della raccolta è quello che prende il nome di " male". Non il montaliano male di vivere che si riscontra dolorosamente tanto nei paesaggi svuotati e nelle presenze men che anomale che lo popolano.In molto testi, a manifestare questo male è innanzitutto la vegetazione: questo potrebbe far pensare ad una poesia ecologista; in realtà nella raccolta di Steffan le piante incarnano un male che va ben al di là del degrado ambientale ( anche se lo include ). Il male di cui si parla colpisce non solo le piante, la natura, ma, e forse più ancora " una lingua inceppata che si sta frantumando ". E' a questo disastro nascosto dentro l'uomo che sembrano alludere le minacciose citazioni bibliche in esergo ad alcuni testi ( " La mia giustizia sta per rivelarsi" dal libro di Isaia ). (...) Umberto Fiori da Poesia Contemporanea
...has it begun to sprout? ( T.S. Eliot ) Inte i slarghi del paese, soto onbrìe fiape de campanìi, no son pì bòn véderla, la me dhent zhenza pì fan. Sote i spiòver dei cuèrt, sote che i ran ragadi da romor de cop e son de sine, al trèn cargà de gnent e onbrìe. Negli spiazzi del paese, sotto ombre / avvizzite di campanili, non riesco più / a vederla, la mia gente senza più fame. // Sotto gli spioventi dei tetti, sotto quei rami / tarpati da rumori di coppi e suoni / di rotaie, il treno carico di niente e ombre. *** Drio striche longhe de talpon. Par buse fonde de paltan. L'udor lìspio de vozhe triste. Rasente righe lunghe di pioppi/. Per pozze fonde di pantano/. L'odore viscido di voci amare.
*** Pierete sperse in fra le zhope stonfe le se des-ciol dal desfarse. De sote de 'n ciel che no 'l buta pì. Pastiglie disperse tra le zolle fradice/ si distolgono dallo sciogliersi. Sotto / un cielo che non germoglia più. *** "La mia giustizia sta per rivelarsi " Isaia, 56, 1 Ingrumadi sui gardizh de lora, òmeni co dòs sbrìndole de tònega co visìghe e co sbroje su pie e cadìce. Stravacadi inte i palazh de dès, òmeni zhenza tònega i é can muti che i rumghéa pasudi 'nte i so castèi. Accovacciati sulle stuoie di allora, / uomini con indosso brandelli di tunica / con vesciche e con croste su piedi e caviglie //. Stravaccati nei palazzi di oggi / uomini senza tunica sono cani muti/ che gozzovigliano sazi nei loro castelli.
*** Pa' le sfése stropade da 'n strafoi che no 'l te ubidise mai o pai slarghi pì vèrti, pai zhei cròti che dhà da 'n tòc i casca dhò cate sol che i frazhun de ben scuarzhadi. Per le fessure tappate da un trifoglio / che non ti obbedisce mai / o per gli spiazzi più aperti, per i cigli malati / che già da tempo cadono giù / trovo solo i frammenti di amori sprecati.
*** Me parece na cuna in fra i frazhun de 'n tenp che l'à studià pèrder tòc farme còrer rento 'n vodo patòc pa' bòt e grop torcoladi de scur. Mi preparo una culla tra i frantumi / di un tempo che si è affrettato / a perdere pezzi // a mettermi in fuga / dentro un assoluto vuoto / per rintocchi e nodi attorti a buio.
" Una persona transessuale è figlia di Dio come ogni altro essere umano" . ( Don Gallo ) Quella mattina ci siamo svegliati presto e all'alba siamo usciti in giardino. Si diceva da giorni che dovesse accadere qualcosa di importante. Che fosse proprio oggi - però - questo non lo sapevamo. Ma c'era un presentimento nell'aria, quasi un fremito animale a preannunciare l'evento. Così, senza una parola, abbiamo preso il corpo, lo abbiamo lavato con cura, vestito come per affrontare un lungo viaggio, cullato alla luce piana del giorno. Avevamo convissuto per vent'anni eppure già non ci apparteneva più. Avevamo capito ch'era arrivato il momento. Lo abbiamo seppellito nell'erba alta, senza indugiare, con il capo rivolto verso le nostre finestre e gli occhi ben visibili, due puntini di luce tra le sterpaglie. Non capivamo cos'era accaduto quella mattina in cui lo abbiamo perduto, perciò volevamo mantenere un contatto, un ponte tra noi per rimediare, per farci perdonare - un giorno - questa morte inutile eppure inevitabile. *** Lo chiamammo sacrificio d'amore per conferirgli la compostezza ieratica di un mistero insondabile - quasi per convincerci che fosse necessario per poter sopravvivere. Ma tu un giorno sei crollato, hai chiamato assassinio quel gesto consumato alla luce del sole, di cui - dicevi - non potevamo affatto pentirci. Come, replicavi, come possiamo dimenticare, far finta che niente sia successo. Come andare avanti con le sue ossa a guardarci dal basso, a commiserarci in questo nostro niente? Col tempo avremmo imparato per non farci cogliere mai più impreparati a saper modulare anche il vuoto. *** Cosa sarebbe diventato quel corpo se l'avessimo lasciato crescere? Mi hai chiesto oggi a pranzo quasi tremando di desolazione. Al mio silenzio ti sei voltato verso la finestra, hai guardato fuori rintracciando qualcosa con lo sguardo. Ma sapevo non avresti trovato nulla, neanche un indizio a farci tornare indietro, forse anche pentirci. Ti ho visto impallidire, poi sussurrare: " E' ancora lì, la notte ci guarda e si tormenta nel buio. Ci maledice".. Avrei potuto toglierti un peso, dirti che quel corpo l'avevamo rimosso due notti prima, gettato nel fiume, allontanato per sempre il senso di colpa. Ma non l'ho fatto oggi a pranzo. A pensarci bene, non l'avrei mai fatto. *** Ti sfiancava quel mio tacere, il nutrire con un grave silenzio le tue più angoscianti paure. Così eri convinto ti provocassi, " vuoi farmi impazzire " dicevi con la gola colma di rabbia: " vuoi darmi la colpa di tutto, mettermi in croce " e te la prendevi coi mobili, strappavi i libri, gettavi in aria le suppellettili - loro incolpevoli nella tua furia. Mi ricordavi la stessa foga violenta con cui mi imponevi di rinunciare al corpo - lo stesso per cui ora ti strazi e non ti capaciti d'averlo perso. Così fragile tu nel non saper lasciar andare i morti. *** Perchè tornare indietro era impossibile provammo a fare come se nulla fosse mai accaduto. Sulla tavola le posate venivano sistemate come allora, i gesti apparentemente disinvolti in larghi movimenti di braccia, gli abiti ordinati per stagioni affinché non tradissero l'immutare del tempo, le porte aperte ad abbattere confini. Noi due distanze vicine nel dramma della perdita imparammo l'arte di simulare la normalità: seguire riti che tramortissero il dolore, tabelle di salvezza da consultare nei picchi del male, capire perfino di non amarci ma continuare a fingere per non soffrire. Giovanna Cristina Vivinetto Inediti "Queste nuove poesie di Cristina Vivinetto, nella loro felicità elocutiva e nella loro necessità tutt' altro che complementare rispetto a " Dolore minimo", ne divengono l'autentico capitolo finale. E definiscono il transito di genere del soggetto poetante come fatto rituale prima e più che come mero evento auto biografico e anagrafico" Alberto Bertoni
Era così prepotente la cifra della tua assenza da ritrovarla in ogni movimento del quotidiano. Il gesto di scrutarsi la fronte allo specchio, la cadenza delle posate sopra il piatto, il modulare una frase, una carezza, schiudere gli occhi al risveglio, articolare in un certo modo il respiro erano talmente tuoi da non capire dove finissi tu e dove iniziasse noi, dove si trovava il confine, dove preservare ancora i ruoli. Per molto tempo tacemmo l'unica verità di quei giorni: e cioè che col perdere te avevamo iniziato e perdere qualcosa di noi stessi. *** Capitavano giorni di salvezza in cui era concesso dimenticare. Allora scrutavamo i nostri corpi nuovi come bestie che presentono col fiato la minaccia, a tentoni ne perlustravamo le pieghe, gli spigoli vivi, evitavamo le zone dolenti, ci adattavamo agli imprevisti. Ma niente c'era a dirci, proprio niente, cosa avessimo fatto fino ad allora di quella carne, quale scempio, quale misera mistificazione. D'improvviso pelle senza storia. Tra le mani cumuli e grumi di cellule da rinominare. Da risignificare. In quegli attimi di pace noi eravamo solo macerie senza nome gettate nel mondo per volere di qualche dio crudele. *** " GiovanniGiovanniGiovanni " hai cantato quella notte una nenia tremenda trascinando le sillabe nel sonno. Mi hai ricordato le antiche madri greche col velo di morte premuto sugli occhi a piangere i figli in riva al mare. Questa trenodia da far tremare il sangue così composta nella sua altezza tragica. Ma come far smettere te, come placare quel pianto radicato nelle vene, come prosciugare il dolore. Avrei voluto essere il tuo deus ex machina che sale improvviso dalle acque, toglierti d'impaccio, chiudere il dramma schioccando due volte le dita. *** La luce che cade dall'alto non cade per tutti allo stesso modo. Ho pensato quando ti ho visto scansare una lama di sole in soggiorno questo pomeriggio. Le finestre che amavi tanto adesso le tenevi serrate, le tende tirate fino all'ultimo - barriere invalicabili. Qui c'eri tu col tuo crimine senza nome, al di là delle imposte tutto il mondo che non volevi contaminare. C'era la purezza dell' animale ferito in questo toglierti dalle circostanze, nell'abolire la tua presenza dai luoghi rinunciando all'umanità. Volevi badare solo per te stesso. A volte provavo una commossa pietà, ma altre volte - invece - con violenza spalancavo i vetri, ti obbligavo al dolore della luce e tu, con due occhi grandi così, acquosi e inoffensivi, mi guardavi come a dirmi incredulo " Perché lo fai? " *** Non lo so ma so che qualcosa si è rotto - non il bicchiere che hai mandato in frantumi per muovermi a compassione, per smuovermi al pianto. Nel profondo qualcosa che si agitava fino a ieri, ora non vibra più. E' come la certezza di un figlio morto, di una parte del corpo che non tornerà più a funzionare. Io vorrei tanto sapere cosa è andato perduto, se una parte si può recuperare, quel che rimane tra noi vorrei tanto sapere, il peso specifico di ciò che ci opprime. Risparmiami almeno questa mia cattiveria - il sorriso buono del carnefice che si slarga un attimo prima della rovina. Giovanna Cristina Vivinetto Inediti
Chopin - Valse op. 64 n. 2 Andato a monte il suo fidanzamento con Maria Wodzinska, probabilmente a causa delle condizioni di salute ed economiche del musicista, dal 1838 fino al 1847 Chopin divenne convivente della scrittrice George Sand - che in realtà si chiamava Amantine Lucile Aurore Dupin - di sei anni maggiore di lui. I due trascorsero un periodo poco felice - per le condizioni di salute di lui - nell' isola di Maiorca. Tornati in Francia, ebbero momenti di grande serenità soprattutto nelle residenze estive presso la villa di campagna della Sand a Nohant. Il carattere fiero e combattivo della scrittrice faceva contrasto con la delicata sensibilità di Chopin, accentuata anche dal suo stato di malattia. Questo contrasto si accentuò con il deterioramento della salute del musicista, a causa del quale la Sand finì per essere per lui più un'infermiera che una compagna, tanto che nelle sue lettere, lei lo chiamava " il suo terzo figlio", " il piccolo angelo" o " il sofferente". Vi furono così diversi screzi fra i due , tanto che nel 1847 la relazione finì. Nonostante queste difficoltà, possiamo tuttavia considerare il periodo vissuto da Chopin con George Sand, molto proficuo dal punto di vista della creazione artistica. frida
Fà' che il tuo occhio nella stanza sia un cero, lo sguardo un lucignolo, fammi essere cieco quel tanto da mettergli fuoco. Paul Celan Come avere paura degli occhi come sapere che tutte le bocche professano il falso e per prima la tua dirà cose che non vuole vedrà cose che non sa ma il vero più del falso resta nelle parole che non riconosco perché non hanno la tua forma la calce bianca dei tuoi sensi deformati per l'occasione parole annerite, scartavetrate cercano rifugio tra le mie ma non trovano che una pace fatta di spilli di mura che non tengono di soldati che non parlano la tua lingua. *** Chiamarti in disparte a parlare mettersi a contare gli anni con gli occhiali nascosti nella curva di un braccio aggrappato, uno spazio non troppo verticale per trovarsi e tenersi le mani pronte al lancio e sdraiarsi l'uno accanto all'altro e lasciare solchi di calore nella terra. *** Abitarsi nelle mani e addormentarsi a poche bocche di distanza al riparo della corteccia della sua forma improvvisata c'è un vento che ci ascolta arrivare da lontano da dove è profondo e non si tocca da dove si resta vivi a guardare a largo, ancora più a largo la terra si fa grido fermo noi la sentiamo nelle sere che non riempiamo nelle facce che risalgono il fondo crespo di ogni superficie la luce ci sorprenderà estranei da ciò che non abbiamo scelto nella perdita degli occhi tutto sembrerà inseguirci ma noi impareremo a vivere a essere senza di noi polmoni pieni d'aria sotto il vetro dell'acqua. *** E mai più cercare ragione del torto perché il torto lo portiamo al collo come una pietra levigata nella stretta un silenzio da osservare da vicino allentare la presa non è ancora respirare ma entra l'aria lo senti nelle spalle che accolgono il colpo nelle braccia liberate in dispersione come se gli occhi fossero finalmente da un'altra parte come se la fronte non stesse lì a dividere il soffitto dalla gola e la caduta è rivendicazione silenziosa di ogni cosa al di qua della visione una domanda che scende dagli occhi e non si riempie e non si svuota. *** Portarsi i pazzi a casa dare loro da mangiare la nostra lunghissima sera togliere il nome alle cose che non tornano prima che sia troppo tardi anche per noi afferrarsi le maniche e chiedere ragione di questi occhi che non si chiudono di queste risa strette contro il giorno oggi si accendono le luci i cani non girano più armati. Carmen Gallo da La paura degli occhi
Resistere all'aria immobile degli scompartimenti e respirare lo spazio nuovo che si nasconde in alto abitare i soffitti cavi delle parole e tendersi a raccogliere solo i tempi imprecisi delle cose. *** Non restare buchi neri fondi fedeli al vuoto affilare la lama che separa i lati bianche della strada nel paese che nasconde il cielo nelle cave essere terra non chiamata invocazione senza nome distanza da percorrere sottovoce. *** E' arrivato il dono, il fuoco il rosso è arrivata la terra, la città che non conosco e dovrebbe essere facile a questo punto sistemarvi al centro la trama visibile dei polsi la schiena curva delle parole e lasciare che gli occhi sentano che la pelle infine veda ma qualcosa ancora trema e io resto immobile a guardare la trama che hai scelto per me la sollevo e penso scegli me scegli me. *** Quanto basta a specchiarsi e a riaversi senza più attendere il nome delle cose legare al letto ciò che non ci sopravvive con la bocca sulla bocca difendere ciò che non detto pure esiste ma poi arriva l'elenco necessario delle cose che hai e non ti importa più di perdere ciò che muto non ti somiglia. *** Nella gravità delle cose che non cadono sostenere lo sguardo del disastro. Carmen Gallo da La paura degli occhi
Lo stesso grande angelo, colui che già una volta l' annuncio della nascita le aveva consegnato, era là, in attesa che levasse a lui lo sguardo, e disse : " E' tempo ora che tu appaia". Ed alle ebbe timore : come allora, e ancora si mostrò come l'ancella, che nell'intimo annuisce. Ma lui la illuminava: infinitamente avvicinandosi, fu come se svanisse nel suo volto. *** Ella nella sua debolezza si distese e i cieli su Jerusalem così vicino attrasse, che uscendo la sua anima nell'alto solo di poco ebbe da protendersi: Egli che di lei tutto sapeva, la sollevò nella divina natura che già le apparteneva. Rainer Maria Rilke
ANIMAE LUDENTES... voi che nella luce del giorno sotto la mia finestra mimate allegri l'età adulta continuate vi prego le vostre prove perdonate l'atto impuro di chi di voi voleva fare materia di canto senza di voi capire il come il quanto l'allegria. Giuseppe Bertolucci, Agosto 1968
Buon Ferragosto ! In occasione della Festa di Ferragosto, che per la Chiesa è la solennità dell' Assunzione di Maria in Cielo, vi propongo un concerto in cui un Complesso musicale della Francia del Sud esegue canti religiosi medioevali spagnoli. I brani eseguiti sono tratti da due preziose collezioni di canti composti in onore della Beata Vergine Maria : il Libre Vermeil de Montserrat e i Cantigas de Santa Maria. La prima collezione è contenuta in un manoscritto del XIV secolo conservato nel monastero de Montserrat in Catalogna, che comprende canti popolari e inni monofonici e polifonici, in catalano, lingua d'oc e latino. Il manoscritto, se pure redatto alla fine del XIV secolo, contiene composizioni anche molto anteriori. I Cantigas de Santa Maria, ci sono pervenuti in quattro diversi manoscritti, uno dei quali si trova alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Si tratta di una raccolta di canti monofonici mariani popolari scritti in antica lingua galiziana portoghese, sulla cui formazione influì lo stesso re Alfonso X ( 1221 - 1284 ) al quale potrebbe anche risalire la composizione di alcuni canti. Fanno parte del concerto anche alcuni brani soltanto strumentali che riflettono la musica popolare spagnola del tempo. Fin dall'inizio si rimane incantati dalla sublime monodia gregoriana con cui si introduce il coro, composto quasi esclusivamente di giovinette dalla voce celestiale. Ben presto dalla monodia si sviluppa la polifonia delle voci, permettendoci così di sperimentare direttamente l'evoluzione della musica in quel fondamentale periodo del Medioevo. frida
E' duro il cammino verso ciò che è chiaro, l'ho capito col tempo, forse soltanto questo è il dono di invecchiare. Lo penso mentre smacchio un lenzuolo con la candeggina, che stinga soprattutto le iniziali, rigide di fili, di nodi, di punti croce sul nome infittito di vocali. *** AMORE Somiglia a un pigiama e ha un odore di lama e ci sono altre cose: l'asciugamano che si può scambiare le poltrone vicine davanti al televisore l'insofferenza per le reciproche mancanze che però si svuota come si fa con le buste della spesa. Molte leggende, il sesso sopravvalutato ma non la solitudine che segue. Il resto è molto poco. Quando morì mia madre, mio padre radunò i vestiti, se li mise sul petto, un cumulo di stoffa e restò a lungo così, sotto quel peso di calore, una notte e un giorno, per poi alzarsi e innaffiare le piante già secche sul balcone. *** Eppure non ha senso rimpiangere il passato, provare nostalgia per quello che crediamo di essere stati. Ogni sette anni s rinnovano le cellule: adesso siamo chi non eravamo. Anche vivendo - lo dimentichiamo - restiamo in carica per poco. *** PERLUSTRAZIONE Entro con mia madre nella morte. Lei ha paura. Cerco nella mia filosofia qualcosa che ci aiuti, parlo della cicuta e degli stoici, dico la solita frase che quando noi ci siamo, lei - la morte - scompare , ma non funziona, anzi cresce dentro di me il terrore. Aspetta - le dico - mentre dorme, ora vado a guardare. Perlustro la zona ( sarà quella ? ) solo per constatare che non c'è difesa, che il suo spazio, quello che la fisica dice sia presente fin da quando nasciamo, è sguarnito di ogni compassione e il tempo è davvero il buco che divora. Allora mi stendo contro di lei dentro il suo letto. Aspetto come muore il suo odore mentre muore. *** NEL FREDDO Pensa i morti e questi vivi che vanno verso casa tra la pioggia e i lampioni, osservali solo per un momento quando i gesti si fermano dentro il suono del traffico e dei tuoni, seguili nelle stanze ora dense di offese, ora di amore, atomi che pensiamo perdurino e che invece si perdono nel vuoto che ci scuote al vento delle stelle e dei pianeti. *** CONTRASTO Lo capite da sole, parole, non vi posso più mostrare con voi faccio del male. Non posso continuare. Non voglio ferire, non voglio lusingare, ma restare nel calore minimo di un cerchio familiare. Dunque- parole - state buone, andate nel silenzio abbasserò la voce fino in fondo. Dalla bocca già escono solo sciami di lettere cartigli medioevali. L'incontro dei vivi con i morti è il nostro affresco. Serve a rinunciare. Antonella Anedda da Historiae