sabato 22 aprile 2017

UN EREMO NON E' UN GUSCIO DI LUMACA



(...) In un romanzo che scrissi - tempo addietro - paragonavo la
      primavera, l'estate, l'autunno ( non era certo un paragone 
      inedito ) alle tre età dell'uomo. L'inverno poi, con il gran fiore
      della neve, è come un segno dell'eternità. Fisso e immobile nel
      gelo, eppur percorso, sotto terra, dal lavorìo della 
      germinazione, con i colori tutti fusi nel bianco: mi pareva - e 
      mi pare - una felice immagine di quel di là dal tempo che è un
      perenne presente, in apparenza fermo, in realtà tutto percorso
      da tensioni, come il Dio trinitario " motore immobile" e " atto
      puro", silenzio che assume il nome di Parola.
      Ho cominciato questo resoconto in autunno - il tempo in cui mi
      sono stabilita qui - ( Molinasso n.d.r. ) e l'ho terminato ancora
      in autunno: il tempo in cui finivo di rivedere queste note. Poi  
      sono passati altri mesi: ancora si è sollevato il coperchio dell'
      inverno e sono di nuovo fiorite le viole. La morte ha covato in
      seno la vita; la vita è uscita dal grembo della morte. Riprende
      il miracolo del mondo: un altro cerchio d'acqua come quando,
      in un fosso, tonfa giù il salto di una rana ( e presto canteranno
      di nuovo le ranocchie, e le notti urleranno di grilli, e i giorni
      urleranno di cicale...).
      Sono abbastanza giovane per cominciare tutto da capo, e sono
      abbastanza vecchia per inclinare dolcemente verso l'ultimo
      autunno. Senza rimpianti. Non sono stanca della vita: sono
      sazia e ancora affamata; ma la misura che ho raccolto è già
      colma pienezza. Perciò la fame non tortura, e alla morte penso
      con intenerimento, come a un cesto più grande.
      Ma non parlatemi del " dolce riposo del nulla", la mia fame
      urlerebbe. Non più vedere il rosso, non più vedere il giallo, non
      più sentire - sotto la mano - lo scabro, il liscio, il caldo, il pelo..
      Non più orare l'agosto, la terra, le more... La mia sete
      urlerebbe!. E non mi dite neanche di un paradiso senza zolle, di
      un firmamento senza lune!
      Oh dolci campi dell' Apocalisse, cieli resuscitati dall'abisso,
      mondi emergenti dalla catastrofe finale, con la buccia più
      tenera, tepidi e umidi di parto, come peluria di pulcino! E in
      questo tutto rinnovato,, il mio " io", il mio " tu", il mio grande
      e il mio piccolo, il mio cielo e il mio gatto. Le mie mani, e di
      nuovo in mano, gli occhi perduti e ritrovati, ritrovati e perduti,
      nell'abisso di Dio.
      E di te, Dio, non voglio parlare di te. Che cosa sono le parole?
      Appigli inutili, maniglie senza presa, e mi vergogno di usarle.
      Dio, non posso parlare di te. Parlerò della vita, parlerò della
      morte; e nemmeno. Troppi diaframmi di retorica, su questa
     " porta del cielo! ".
      No, parlerò solo della mia dolcezza.   (...)


            Adriana  Zarri   da   Un eremo non è un guscio di lumaca

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