venerdì 17 marzo 2017

IL RITORNO DI EURIDICE 2


                         Tu se' morta, mia vita, e io respiro?
                         Tu se' da me partita
                         per mai più tornare ed io rimango?

(...) Così aveva gorgheggiato lui con la cetra in mano e lei - da
       quella monodia - s'era sentita rimescolare. Avrebbe voluto
       gridargli grazie, riguardarselo ancora amorosamente, ma era
       ormai solo una statuina di marmo freddo, con un agnello
       sgozzato ai piedi, coricata su una pira di fascine insolenti. E
       nessun comando che si sforzasse di spedire alle palpebre, alle
       livide labbra, riusciva a fargliele dissuggellare un momento.
       Della nuova vita, che dire? E delle membra che le avevano
       fatto indossare? Tenue, ondose, evasive come veli...
       Poteva andar meglio, e poteva andar peggio. I giochi con gli
       aliossi, le partite di carte a due, le ciarle domestiche con
       Persefone al telaio, le reciproche confidenze a braccetto per
       i viali del regno, mentre Ade dormiva col capo bendato
       nascosto da un casco di pelle di capro... Tutto era servito -
       per metà dell'anno  almeno - a lenire l'uggia della vita di
       guarnigione. Ma domani, ma dopo?
       Guardò l'acqua: veniva, onda su onda ( e sembravano squame,
       scaglie di pesce ) a rompersi contro la proda. Scura, fradicia
       acqua, vecchissima acqua di stagno, battuta da remi remoti.
       Tese l'orecchio: il tonfo delle pale s'udiva in lontananza
       battere l'acqua a lenti intervalli : doveva essere stufo - il
       marinaio - di tanto su e giù...
       Mille e mille anime s'erano raccolte, frattanto , e aspettavano.
       Anche a mettersi in fila sarebbero passate ore prima che
       giungesse il suo turno. " Non ci sono precedenze per chi
       ritorna?", si chiese con un sorriso, benché non avesse fretta
      - ormai che c'era - di rincasare. Erano mille e mille, le anime e
       aspettavano tremando di freddo e starnazzando, con una sorta
       di impazienza affamata. Il fuoco che brillava in mezzo a loro,
       va a sapere come avevano fatto ad accenderlo, ad attizzarlo,
       con che pietre focaie e pigne di pino. E vi si scaldavano
       attorno: l'aria di fiume è nociva ai corpi spogliati.
       Sorrise ancora, come se i reumi avessero corso, fra i morti.
       Benché a lei sarebbe piaciuto lo stesso consolarsi le palme
       a quella fiamma, mescere la sua voce - un pigolio - al
       pigolare degli altri. Non lo fece, non s'avvicinò al bivacco:
       preferiva restare sola a pensare. Poiché un disagio - lo stesso
       che lascia un cibo sbagliato - le faceva male sotto una
       costola, e lei sapeva che non era il cruccio della vita ripersa,
       della resurrezione andata a male, era un altro e curioso
       agrume, un rincrescimento incapace per ora di farsi pensiero,
       ma ostinato a premere dentro in confuso, come preme un
       bambino non  nato, putrefatto nelle viscere, senza nome né
       sorte. E lei non sapeva come chiamarlo, se presagio, sospetto
       o vergogna...
       Ricapitolò la sua storia : voleva capire .  (...)
     

             Gesualdo Bufalino  da      L' uomo invaso
     

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