Occhi neri, occhi appassionati : quanto vi amo, quanto vi temo...
(…) Una sera, a un tavolo di ristorante a Roma, avevo bevuto al
punto giusto: credevo di capire Izet che mi diceva a memoria i
versi di Esenin in russo. A quel tempo non avevo ancora
acquisito la prima grammatica slava.
Un'ulcera di nostalgia gli premeva in petto e prese la via di
uscita della più potente lingua delle letterature. La voce di
Izet, slavo del Sud, entrò nel russo senza visto d'ingresso. Le
lingue non chiedono documenti. Entrò nel russo e prese la via
di Esenin - diritta - un po' in discesa. Con i versi che uscivano
di bocca ricacciò indietro le lacrime affacciate. Credevo di
capire quella lingua e l'uso che Izet ne faceva. Quella lingua
gli serviva da argine. Su scala maggiore successe qualcosa di
simile agli Apostoli dopo la morte del Maestro, nell'occasione
della Pentecoste. Per entusiasmo, per nostalgia e pure per
miracolo parlavano e intendevano le lingue.
Quella sera Izet aveva la voce alcoolica e sommessa di chi ha
bisogno di dire. Seduto di fianco, ascoltavo il suo fiato
spingere sillabe contro i denti, il palato, la lingua. Il vento
scritto da Esenin soffiava dal fondo del petto di Izet, sbattendo
contro tutti gli ostacoli che alla fine lo rendono voce.
La voce è uno sbattere di vento nella galleria delle corde
vocali. Le sillabe russe accentate erano un assolo di batteria.
Izet andava sui versi di Esenin come un cavallo sulla strada di
casa.Sentivo gli zoccoli battere gli accenti,facevo il passeggero
trasportato al trotto. Il poema era lungo un buon cammino.
Seduto alla tavola , testa tra le mani, ho saputo che la poesia
non va letta cogli occhi da una pagina, ma estratta a memoria
dalla voce. E' teatro che si apparecchia senza palco e luci. Ce
la fa da sola senza applausi e bis. Lascia - nella sala d'attesa
dell'orecchio - un vuoto e un risveglio bisognoso. E' mistura di
alcool, pentecoste e batteria.
Al tavolo, gli altri parlavano tra loro, non badavano a noi.
Quando finì Esenin, alzammo i nostri bicchieri spaiati, il suo
di acquavite, il mio di vino, e brindammo: " Moj brat ", "
Fratello mio ". (…).
Erri De Luca & Izet Sarajlic da Lettere fraterne
Molto bella, un sorprendente Erri... Accattivante il brano e il video
RispondiEliminaNeppure io ero al corrente di questa fraterna amicizia e delle circostanze: e come al solito, De Luca ci propone in fatti con una scrittura molto particolare…
RispondiEliminaGrazie per l'intervento.