VORREI DIRTI L'IMBARAZZO
Vorrei dirti l'imbarazzo di una povertà
che non immaginavo.
Vincere l'omertà del nascondimento,
dimenticare il copione di sempre.
Non resta che aspettare il dormiveglia,
per ritornare agli odori perduti. Da lì
rieccoci al crepuscolo: c'è tempo - ancora -
per vincere il deserto inconsistente
dell'estate, godere a tutti i costi
senza saperlo. Non credere alla morte
che in un'ora occasionale. Ora invece i morti li contiamo,
immaginiamo gli anni al loro doppio:
è muta la parola del cemento,
ogni creatura chiede un'attenzione nuova.
Ci rimane appena sulla pelle l'infinita
grazia di cercare.
***
VORREI ESSERE L'INTRUSO
Vorrei essere l'intruso del mio tempo.
Scorgermi inatteso, ritrovarmi
dentro i giorni, i volti, i nomi.
( C'è - in ogni memoria - una donna. L'universo
ristretto nella carne, la maternità del mondo ).
Quest'aria intorno brucia nel tramonto:
dicembre sa sciogliere il cammino della neve, sa
attardarsi
in uno spazio di silenzi rarefatti. Qui
è ancora giorno. Lo colgo nel suo transito,
nell'annuncio, nei linguaggi del ricordo,
tra le permutazioni e le scomparse.
( Ci sono ore buone per i vocativi,
per le correspondances ).
Se la parola è nuda, luminosa,
sa spingersi oltre il chiuso della storia
e aprirsi al suo gorgo, riaffacciarsi :
la voce è il solo scarto, la rivalsa
- allude al vento, al canto delle cose
che non frena la luce, la contiene.
***
LA SOMMITA' DEL DOLORE
Sono per te la sommità del dolore.
Il tradimento del sangue,
il gelo dell'attesa.
Sono la consuetudine dannata
che non si abbandona,
l'umido del pianto,
la morsa che stanca la carne.
( C'era come una santità,
ed era tutta nelle stanze, nelle cose,
nell'ora tarda dove l'amore
pretende veglie pazienti, nel morire
poco a poco).
Ora ti rivedo impallidire,
riordinarti a fatica. Ora mi ferisce
il biancore, il tuo esitare, la tenacia quotidiana.
Chissà che suono avrebbe riesumarci,
osservare il passato dei frammenti,
riconciliarci nelle fibre
della vita che ci ha sperso.
***
MI ARRENDO A QUESTA GRAZIA
Mi arrendo a questa grazia che non basta.
E' l'ombra paziente dei ricongiungimenti,
il graffio di luce inferto alla pellicola.
Disturbo il foglio, confido di trovarvi altro:
il canto di una casa che mi accoglie,
il racconto trafugato della nostra vita feroce
che ricordo, sempre.
Penso al prossimo tempo dei congedi,
mi costringo a una serenità ( che non so ),
mi proteggo.
Mi arrendo a questa grazia ( di dire ) che non passa,
la benedico.
Spero ancora nell'altra vocazione.
Vi aspetto dovunque abitammo
i nostri riti felici, e nel dirvelo
vi stringo.
Come posso.
***
ORA LO SO FEROCE...
Ora lo so feroce questo scavo
dentro il legno, sopra una venatura
messa a nudo.
Ricordami però quant'è felice
la lingua che ritorna alla sua terra
per poi tradirsi sempre alla radice;
e quant'è necessario quell'abbrivo
se ancora - nel profondo - ci conforta.
( Lo sai già dall'inizio che ho da dirti
una pagina nuova, un altro chorus ).
Emanuele Franceschetti da Le terre aperte
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