giovedì 29 novembre 2018

LE STANZE DELL'ADDIO 1

 
 

                                                             Ti chiamo, ti chiedo di tornare…


PRIMA STANZA

(…) Un raggio di mezzogiorno è salvo nella penombra, potente e
       quasi verticale,e si ferma nei pressi della finestra.Tanta luce in
       un metro quadro, il resto al buio. Ci metto un po' ad
       accorgermene, poi è così palese che devo confessarlo a me
       stesso: fa tanto freddo, se sei passata di qui è grave. Fa molto
       freddo, moltissimo. Perché il pavimento non è coperto da una
       lastra di ghiaccio? Si intuisce invece il solito linoleum, non ci
       sono stalattiti, colonne, stalagmiti, ma le tracce di un fiume.
       Questa stanza è un greto secco. Tremo. Sei passata di qui?
       Chiamo il tuo nome.Se mi rispondi subito -forse -siamo ancora
       in tempo. Altrimenti batteri, polmoni, impossibile. Corro da
       un angolo all'altro. Ci provo, ma le distanze non sono
      gestibili.Batto contro uno spigolo non so di cosa, poi vado nella
      direzione opposta e non arrivo mai alla fine. Questo buio è un
      complotto. L'unico raggio ha fatto un passo indietro, appena
      oltre la finestra, ridotta a una candela, mentre a oriente un
      ampio bacino scuro protende il suo dominio, una melma che
      ingurgita, procede in avanscoperta e secca la retrovia, tutto
      intero, tutto compatto e nero, tutto soffocato da questa
      estensione violenta e buia. Se mi muovo, se faccio un passo, se
      corro, ritorno a me stesso e questa condizione è dolorosa come
      un solo dente malato in una bocca. Sono tutto botte, tutto
      tumefazione, tutto nervi scoperti, tutto mialgia, sono tutte le -ie,
      tutte nella mia mente, perché tu non ci sei.
      Tu sei la verità e la distanza da tutto questo, tu sei la natura
      matrigna, tu sei la vittima, tu sei il patto violato, tu sei l'altrove
      avverato, tu sei una tra milioni, tu sei l'anticipo sui mali, tu sei
      una, tu sei la madre e la figlia, tu non sei niente di che, sei
      normale, va bene, siamo all'ospedale, il posto in cui ci si va a
      curare in corposi cubi e parallelepipedi e minutissime stanze
      che inghiottono tutto.
      Eccomi, ti chiamo. Se ti sei nascosta qui è molto pericoloso.
      Ti prendi un raffreddore, un'infezione, fai attenzione.Ti chiamo,
      ti chiedo di tornare. Forse ho detto qualcosa di sbagliato. E'
      contro di me tutto questo? E' uno scherzo, uno sgarbo a
      qualcuno, un colpo in canna ben sparato da chi macinava
      invidia per te? Cosa? Ho il fiatone, mi siedo. Cerco di pensare
      a quale direzione mi condurrà verso l'uscita. In questo
      tentativo trascorro il tempo di una vita. Mesi. Anni. Fiumi di
      discorsi e argomentazioni e cartelle cliniche e ricordi
      antichissimi - mio dio quanto affilati e quanto crudeli - che si
      conficcano nel costato. Ci dev'essere un errore. Non ho chiesto
      penitenze. Forse le avrò meritate. Forse tu le avrai meritate.
      Ecco, tu. E io appresso a te, in quella  tua ridicola religione di
      contrappesi, di perversioni riparatorie, di cocci risanati con la
      colla del sangue. Con quelli ci siamo punti?Con quelli ci siamo
      smarriti?
      Bisogna che vada. Bisogna azzerare le chiacchiere e venirti a
      cercare. Bisogna tornare al tempo in cui facevi rotolare palline
      al tavolo del ristorante, palline fatte con le molliche del pane
      per i nostri bambini e qualche volta anche per me. No. Con
      questi pensieri alzarsi è impossibile. Riproviamo.
      Sei in pericolo, alzati. Mi alzo.
      Cerca, cerco.
      Esci. Esco? No, non ce l'ho fatta.
      Impartisco ordini a me stesso e non funziona. Perché non sono
      intero. Se non mi sbrigo, presto questa immensa stanza nera
      brulicherà di me stessi che si danno ordini e io non sarò più
      vero degli altri. Via, uscire. Venirti a cercare. O andarsene via.
      Ma non ci riesco. Penso.Vaffanculo a te, ai tuoi scherzi, ai tuoi
      dolori. No. Arrivo. Non perderti. Vedrai, arrivo. Non sono io
      che rido mentre lo dico. Nemmeno tu, mi pare. Eccomi. In
      qualche modo faremo. Mi fermo ancora solo un pochino. Va
      tutto bene, vedrai. L'ha detto anche il dottore. Solo il due per
      cento, il due per cento di cellule malate. malattia in
      remissione… (…)


            Yari  Selvetella    da     Le stanze dell'addio

2 commenti:

  1. Parole davvero struggenti, non facili (soprattutto nel post precedente) proprio a testimoniare quel drammatico smarrimento dinanzi ad una perdita tanto importante. Bello il brano, perfetto per accompagnare il testo, conoscevo la musica ma non il significato delle parole

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  2. La storia è drammatica, ma ciò che la rende " Unica " sono le parole ( pura poesia ) di questo libro.Parole da cui traspare un amore vero e profondo; parole e gesti che oggi sembrano quasi obsoleti perché questa società imperniata sulle " cose" mette in secondo piano i sentimenti fino a farci vergognare ( se non di provarli, quantomeno.. ) di esprimerli pubblicamente.

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