Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei fatta!
(...) Disse: " Inseguiva il re Apollo Dafne
lungh'esso il fiume, come si racconta.
La figlia di Penèo correva ansante
chiamando il padre suo dall'erma sponda.
Correva, e ad ora ad or le snelle gambe
le s'intricavan nella chioma bionda.
Ben così la poledra di Tessaglia
galoppa nella sua criniera falba
che fino a terra la corsa le ingombra.
Rapido il re Apollo più l'incalza
- infiammato desio - per lei predare.
All'alito del dio doventa fiamma
la chioma della ninfa fluviale.
" O padre, o padre " grida, " tu mi scampa! "
Chiama ella il padre suo con grida vane.
" Padre, un veloce fuoco mi ghermisce! "
E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce
crescon la furia del dio predace.
" O gran padre Penèo, perduta sono,
ché mi si rompono i ginocchi.
Ed ecco ella s'arresta, chiude gli occhi
e trema e dice : " Or ecco m'abbandono".
Una gioia s'aggiunge al suo terrore
ignota che il divin periglio affretta.
Tremante e nuda dentro la chioma ode
la vergine il tinnir della faretra,
sente la forza del perseguitore,
vede l'ardor pe' chiusi cigli e aspetta
d'esser ghermita, e più non chiama il padre.
Ma il dio la chiama: " Dafne, Dafne, Dafne! ".
Ed ella non udì voce più bella.
Il dio la chiama: " Dafne, Dafne! ". Ed osa
ella aprir gli occhi: la rutila faccia
vede da presso e la bocca bramosa
mentre il dio con le due braccia l'allaccia.
Rapita dalla forza luminosa
gitta ella un grido che per la selvaggia
sponda ultimo risuona. E l'ode il padre.
Avido il dio districa la soave
nudità dalla chioma che la fascia.
Bianca midolla in cortice lucente,
in folti pampini uva delicata!
Tenera e nuda il dio la piega, e sente
ch'ella resiste come se combatta.
Tenera cede il seno; ma dal ventre
in giuso, quasi fosse radicata,
ella sta rigida ed immota in terra.
Attonito, l'amante la disserra.
" Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei fatta! "
Subitamente Dafne s'impaura:
le copre il volto e il seno un pallor verde.
Ella sembra cader, ma la giuntura
dei ginocchi riman dura e inerte.
S' agita invano. L'atto della fuga
invan le torce il fiato. Si disperde
il senso di sua vita nella terra.
E l'amante deluso ancor la serra.
" Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?"
Ma non il suo melodioso duolo
giova a trarre colei dalla sua sorte.
Nell'umidore del selvaggio suolo
i piedi farsi radiche contorte
ella sente e da lor sorgere un tronco
che le gambe su fino alle cosce
include e della pelle scorza fa
e dov'è il fiore di verginità
un nodo inviolabile compone.
" O Apollo" geme tal novo dolore.
" Prendimi", dov'è dunque il tuo desio?
O Febo, non sei tu figlio di Giove?
Arco- d' Argento non sei dunque un dio?
Prendimi, strappami alla terra atroce
che mi prende e beve il sangue mio!
Tutto furente m'hai perseguitata
ed or più non mi vuoi? Me sciagurata!
Salva il mio grembo per lo tuo desio!
Salvami, Cintio, per la tua pietà!
Se i miei capelli, che t'avvinsero, ami,
de' miei capelli corda all'arco fa!
Prendimi, Apollo!". E tendegli le mani,
che son fogliute, e il verde sale; e già
le braccia sino ai cubiti son rami;
e il verde e il bruno salgon per la pelle;
e su per l'ombelico alle mammelle
già il duro tronco arriva; e i lai son vani.
" Aita, aita! Il cuore mi si serra.
Vedi altra scorza che il petto m'opprime!
O Febo Apollo, strappami da terra!
Tanto furente, non sia più ghermire?
Nuda mi prenderai su la dolce erba,
su la dolce erba e su 'l mio dolce crine.
Ardo di te come tu di me ardi.
O Apollo, o re Apollo, perché tardi?
Già tutta quanta sentomi inverdire".
Il dolce crine è già novella fronda
intorno al viso che si trascolora.
La figlia di Penèo non è più bionda;
non è più ninfa e non è lauro ancora.
Sola è rossa la bocca gemebonda
che del novello aroma s'insapora.
Escon parole e lacrime odorate
dall'ultima doglianza. O fior d'estate,
prima rosa del lauro che s'infiora!
Tutto è già verde linfa, e sola è sangue
la bocca che querelasi interrottamente.
In pallide fibre il cor si sface
ma il suo rossore è in sommo della bocca.
Desioso dolor preme l'amante.
Guarda ei l'arbore sua ma non la tocca;
l'ode implorare, ma non ha virtù.
E chiama: " Dafne, Dafne!". Ella non più
implora, non più geme. " Dafne, Dafne! "
Ella non più risponde: è senza voce.
Pur la gola sonora è fatta legno.
Le palpebre son due tremule foglie;
li occhi gocciole son d'umor silvestro;
bruni margini inasprano le gote;
delle tenue nari è appena il segno.
Ma nell'ombra la bocca è ancora sangue,
sola nel lauro la bocca di Dafne
arde e al dio s'offre: virginal mistero.
Curvasi Apollo verso quella ardente,
la bacia con impetuosa brama.
Ne freme tutta l'arbore, s'accende
l'ombra intorno alla fronte sovrana;
ogni ramo in corona si protende
e la fronte d' Apollo è laureata.
Pean! O gloria! ma sotto i suoi baci
or più non sente che foglie vivaci,
amare bacche. E Dafne, Dafne chiama.
" Ahi, lassa, Dafne, ch'arbore sei tutta!
Ahi, chi ti fece al mio desio diversa ?
In durissimo tronco e in froda cupa
la dolce carne tua or s'è conversa.
La tua bocca vermiglia s'è distrutta,
che pareva di fiamma ardere eterna.
Come leggeri i piedi tuoi su l'erba,
or radicati nella negra terra!
M'odi tu? M'odi tu? Dafne, sei muta?
Rispondi! ". Abbrividiscono le frondi
sino alla vetta. Nel silenzio un breve
murmure spira. " M'odi tu? Rispondi!"
Move la vetta un fremito più lieve.
Poi tutto tace e sta. Sotto i profondi
cieli, le rive alto silenzio tiene.
Il bellissimo lauro è senza pianto;
il dolore del dio s'inalza in canto.
Odono i monti e le valli serene. (...)
Gabriele D' Annunzio da Alcyone - libro III
Alcyone è considerata una delle più belle raccolte poetiche del '900, certo il suo linguaggio poetico oggi ci pare un po' artificioso, ma comunque apre ad un modo mitico e misterioso che non farebbe male visitare di tanto in tanto.
RispondiEliminaSono d'accordo. In particolare mi piace e ancora riesce ad emozionarmi questo bel mito che D' Annunzio ci descrive con un linguaggio poetico forse desueto ai giorni nostri, ma che mi affascina. " Subitamente Dafne s'impaura: le compre il volto e il seno un pallor verde..." Come non riconoscere la bellezza di espressioni come questa?
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