venerdì 29 novembre 2019
BREVE STORIA DEL MIO SILENZIO 3
(…) Ricominciai piano piano a capire che ero in grado di parlare,
frasi corte che pronunciavo tutte d'un fiato, senza il pericolo di
dovermi interrompere. Il difficile era partire. Prendevo la
rincorsa, chiudevo gli occhi, e mi lanciavo con la sensazione di
essere legato alla funivia sospesa sull'abisso." E se mi finisce il
fiato? Se la ruggine rallenta gli ingranaggi?".
Non era tanto il silenzio a farmi paura, ma che continuassi a
ricordarmene. Mia madre cercava di venirmi incontro quando
intuiva la mia difficoltà.
" Stavi dicendo questo, vero? "
Mi rubava il tempo e con la faccia accigliata.
" Pensa bene a quel che stai per pronunciare, concentrati ".
Era il peggior errore che potesse commettere : il mio compito
era dimenticare, non ricordare. Lei non lo sapeva. Nella sua
disperazione, tendeva a ridimensionare le mie debolezze, a
coprire le insidie.
" Sarà per noi come un sogno " era solita dire " anzi, fra poco
nemmeno più un sogno. " . E i suoi discorsi finivano lì.
Trascorsi molti giorni nell'incertezza di essere guarito.A fatica
riuscivo a farmi capire, raccontavo per sommatorie, a strappi,
a frenate.
" Ora che hai ripreso a parlare ", mi rassicurava mia madre, "
vedrai come sorellina ti sembrerà ancora più bella ". Era bella
mia sorella, non lo mettevo in dubbio : aveva una testa pelata
e un unico ciuffo di riccioli sottili e biondi proprio sulla fronte:
parevano a crescere a bella posta per tenere la nocca bianca
che negli anni a venire, tutte le mattine - mia madre - si
ostinava ad annodare. Quando mi accostavo alla culla, mia
madre si rasserenava, io no : c'era un'ombra fra me e lei.
Qualcosa si annidava dentro, un sentimento senza nome, com'
era senza nome l'aria dei mattini di giugno che portavano i
respiri dei lillà cresciuti lungo i muri. Un giorno quell'odore
nauseante arrivò così forte da provocare una domanda : " Sei
tu la mia vera mamma?"Gliel' avrei voluto chiedere nell'attimo
in cui rimasi senza parole. Lo facevo ora, con ritardo.
Mia madre sapeva bene a cosa mi riferissi : aprì il cassetto del
comò dove conservava le fotografie, ne afferrò una e me la
mise sotto gli occhi : " Io che ti allatto la prima volta ". Era
identica all'immagine di mia sorella poco dopo essere nata:
stessa posa, stesso letto stesse lenzuola. Al suo posto però c'ero
io. La foto non cancellò la paura di non essere guarito. Avere
genitori che non ti avevano messo al mondo, equivaleva a
camminare dentro una vita non tua,ai margini di una vita vera.
Ed è possibile che io abbia ereditato da mia madre questo
esistere senza appartenere, il sentimento che odora di lillà nei
mattini di giugno, perché anche mia madre non aveva avuto
una casa tutta sua dove trascorrere l'infanzia ed era vissuta dai
nonni, vicino al ponte di ferro, dove la domenica andavo a
recitare poesie in cambio di liquirizia. (…)
Giuseppe Lupo da Breve storia del mio silenzio
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