domenica 10 novembre 2019
IL MESTIERE DI VIVERE ( Diario di Pavese ) 2
29 Settembre 1938
(…) Dovrò smettere di vantarmi incapace dei sentimenti comuni
( piacere della festa, gioia della folla, affetti familiari…).
Incapace sono invece di sentimenti eccezionali ( la solitudine e
il dominio ), e se non riesco bene in quelli comuni, è perché una
ingenua pretesa a quegli altri mi ha corroso il sistema dei
riflessi che avevo normalissimo.In genere ci si accontenta di
essere incapaci di quelli comuni, e si crede che ciò voglia dire
" essere capaci degli altri ".Si può analogamente essere incapace
di scrivere una sciocchezza e incapace di scrivere una cosa
geniale.L'una incapacità non postula l'altra capacità,e viceversa.
Si odia ciò che si teme, ciò quindi che si può essere, che si sente
di essere un poco. Si odia se stessi. Le qualità più interessanti e
fertili di ciascuno, sono quelle che ciascuno più odia in sé e negli
altri. Perché nell'odio c'è tutto: amore, invidia, ignoranza,
mistero e ansia di conoscere e possedere. L'odio fa soffrire.
Vincere l'odio è fare un passo nella conoscenza e padronanza di
sé, è giustificarsi e quindi cessare di soffrire. (…)
***
15 Ottobre 1938
(…) L'accettazione della sofferenza ( Dostojevski ) è in sostanza un
modo di non soffrire. Dunque, chi si sacrifica non lo fa per
lenire la sofferenza di un altro? Che torna come dire: soffra
pure io, purchè non soffrano gli altri, tutto è bene. E se
ciascuno si occupasse di non soffrire lui, non sarebbe più
spiccia ? Ma - appunto - la trovata dostoievskiana è che si
cessa di soffrire soltanto accettando. E pare che si possa
accettare la sofferenza soltanto sacrificandosi. In queste cose
il torto è fare il passo più lungo della gamba. Si accetta di
soffrire ( rassegnazione ) e poi ci si accorge che si è sofferto e
basta. Che la sofferenza non è servita a noi e gli altri se ne
infischiano. E allora si digrignano i denti e si diventa
misantropi.
Voilà.
La cosa più atroce è sempre il " passare per fessi". Cioè veder
negata ( vanificata ) la propria sofferenza. (…)
***
(…) La vecchiaia - o maturità - scende anche sul mondo esterno.
La rigida e trasparente notte invernale che staglia le case nel
cielo che attende la neve, un tempo toccava il cuore e apriva
un mondo d'ansia eroica.
Non è più necessario - col tempo - muoversi nel mondo esterno
vivendoci l'ansia: basta il suo rapido accenno, sapere che
esiste ed esiste in noi, e attendere un mondo tutto fatto di vita
interiore che ha preso ormai la novità e la fecondità della
natura. La maturità è anche questo: non più cercare fuori, ma
lasciare che parli -col suo ritmo che solo conta - la vita intima.
E' ormai povero e materiale il mondo esterno davanti alla
inaspettata e profonda maturità dei ricordi. Persino il sangue
e il corpo nostri si sono maturati e intrisi di spiritualità, di
largo ritmo.
La giovinezza è non possedere il proprio corpo né il mondo.(..)
Cesare Pavese da Il mestiere di vivere 1935 - 1950
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