mercoledì 23 ottobre 2019

L'ALBATRO ( Diario di Tomasi di Lampedusa ) 5



(..) Il mio liceo era l' Ennio Quirino Visconti, in piazza del Collegio
      Romano. Prendemmo alloggio in via del Tritone, 17, al Marini
      Straund Hotel. Ancora una volta il numero 17 segnava i miei
      luoghi. Anche in via Lamedusa 17 ero stato felice. La mattina
      andavo a scuola a piedi, respiravo l'aria ignota e sensuale del
      continente. L'acqua del Tevere si arrotolava e incespicava sulle
      rocce, gloglottava come in procinto di strozzarsi. Era così
      diversa da quella secca del fiume Belice. I compagni di classe
      avevano tutti una cadenza diversissima dalla mia. E io cercavo
      di imitarli, chiudendo le vocali e vigilando sulle sonorità che la
      mia voce assumeva quasi senza accorgersene. Un misto di
      cantilena araba, noia predestinata e litanie dei morti. Questo
      era l'accento - inopportuno - di un palermitano.La mia famiglia
      ingannava il tempo facendo visita a qualche conoscente e
      seguendo il ritmo delle celebrazioni sacre. Mia madre era
      ancora in lutto, sebbene sul pizzo nero della camicetta
      sfoggiasse di tanto in tanto un fiore colorato.
    Nel 1908 il terremoto di Messina le aveva strappato l'amatissima
    sorella Lina. Le macerie l'avevano ingoiata con il marito,
    lasciando in vita solo mio cugino Filippo. Anche a Palermo
    avevano avvertito la scossa: erano le cinque e venti e la pendola
    del nonno era rimasta ferma a segnare l'orario, bloccandosi per
    sempre. Gli oggetti sanno parlare molti linguaggi e - tra essi -
    quello a cui sono più sensibili è il linguaggio della morte. Lo
    fiutano e lo attuano irrevocabilmente, lo incidono sul proprio
    corpo e lo rimandano all'esterno. Quand'ero ragazzo osservavo
    la pendola fissa alle cinque e venti, chiedendomi perché mai
    nessuno la facesse riparare. Non sapevo che molti maestri
    orologiai avevano tentato di rimetterla in moto, ma che nessuno
    c'era riuscito. A Roma restammo poco: frequentai solo il primo
    bimestre. Le piogge invernali avevano riportato la normalità a
    Palermo, l'avevano lavata dal male. Il colera se n'era andato
    così com'era venuto e molti concittadini fecero rientro nelle case
    nobiliari: riaprirono le finestre, sollevavano i lenzuoli bianchi
    con cui avevano coperto i biscuit finissimi, le specchiere rococò,
    i pianoforti a coda. Fecero svolazzare le tende, lasciarono
    irrompere la luce maligna nostra, che eccede così come la
    sventura. Baciati dalla grazia e dal temporale, anche noi
    tornammo a casa, credendo di aver beffato la morte.  (…)



                Simona Lo Iacono     da     L' albatro



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