mercoledì 31 gennaio 2018

TI PORTO...

 
 

                                                   Ma quel che volevamo non lo sapranno dire...



Ti porto
come il più necessario dei pesi
il più caro
il più doloroso
somma d'inerme bellezza
che mai più mai più.
Sulle spalle ti porto
sono un uomo piegato
che strazia i punti cardinali
con la tua esposizione
un dio esposto
che ti lascerà cadere
frammentata in meteore
a fecondare la terra
su cui ora strisciano le fronti.
E cadranno i tuoi occhi
irraggiando cupole e vicoli di nerezza
cadranno le tue gambe
moltiplicando tumuli e altari
cadrà il velo dei tuoi capelli
su ogni operosità e ogni rinuncia
cadrà il tuo ventre
l'humus del sesso
a colmare i solchi perimetrali
cadrà anche la chiostra dei tuoi denti
ad azzannare l'aria del precipizio
e spalancare i templi.
Il tuo corpo smembrato
fonderà città e territori.
Il tuo corpo smembrato
edificherà la topografia del lutto.




Uno per il Desiderio
uno per la Gioia
uno per la Devozione
uno per la Cura
uno per il Coraggio
uno per la Visione
uno per la Metamorfosi.
I tuoi sette passi nuziali, Jaye.
Tu in abito maschile
io nella veste da sposa
dio-capro imbiancato e angelicato.
Noi Sole e Luna, Regina e Re.
Noi Rebis.
Il mio zolfo e il tuo mercurio.
Io non ho mai voluto - Jaye - altro che consegnarmi a te
portare sulla pelle il segno della definitiva appartenenza
ripudiare la falsità degli specchi per vedermi solo nei tuoi occhi
impegnare la carne nel transito da me a te, da me a noi
approdare mano nella mano al primo risveglio da eguali
dipapidarmi in te e ricostruirmi in eccedenza
abbagliare gli dei con la luce aurea dei miei denti
- noi, dall'antica ferita dimidiati e per le nuove ricostituiti
noi, i due volti colpevoli di eccesso -
riscrivere il mito, Jaye, inciderlo sul corpo.
Fino al giorno in cui il mito ti ha pretesa.
Io pongo il mio respiro in te, hai detto.
Io ricevo il tuo respiro in me, ti ho risposto.
Io pongo la mia parola in te, hai detto.
Io ricevo la tua parola in me, ho risposto.
Io pongo il mio occhio in te, hai detto.
Io ricevo il tuo occhio in me, ho risposto.
Io pongo il mio orecchio in te, hai detto.
Io ricevo il tuo orecchio in me, ho risposto.
Io pongo la mia mente in te, hai detto.
Io ricevo la tua mente in me, ho risposto.
Io pongo il mio piacere e il mio dolore in te, hai detto.
Io ricevo il tuo piacere e il tuo dolore in me, ho risposto.
Io pongo le mie azioni in te, hai detto.
Io ricevo le tue azioni in me, ho risposto.
Ci credevamo salvi perché interi
e oggi io non sono che il tuo kolossos
la pietra da cui tu, l'Oltrepassata, t'affacci per tornare.
Sono Orfeo, Jaye. Vengo dove tu sei soltanto per guardarti
soltanto per trasgredire una terza volta.




Diranno di noi
ciò che ai loro occhi
avremmo dovuto:
fonderci in un figlio
ciò che ai loro occhi
non abbiamo saputo:
che l'Uno è un viaggio da compiere dentro
o che l'altro è altro solo in apparenza.
Ma quel che volevamo
non lo sapranno dire:
il tuo cuore, a muovere il mio sangue
i miei polmoni ad insufflarti l'aria
lo scambio delle bocche, la tua
dentro il castone della mia faccia
le orbite - le tue - con i miei globi
le mani - mie
a finimento delle tue braccia.


          Laura  Liberale      Inediti

BRINDISI DEGLI ANGELI

 
 

                                                               Mentre il risveglio ha le idee chiare...



NESSUNO SI PERDE MA NIENTE SARA' COME PRIMA

Entro ed esco dalla nostalgia
tirchia nei miei dolori lenti
e mi basta il tuo bene
per vivere oltre i miei giorni
con una macchia di confini al petto
la complicità di misurarsi con le lune
nella memoria del bosco che riconosce i dispersi
fra i tramonti d'onde snelle
che rinnovano girasoli lattici tra le nubi
mentre il risveglio ha le idee chiare
appoggiandosi all'acqua dell' anima altrui
nessuno si perde ma niente sarà come prima.




SUDARIO DEL CORPO SENZA SEME

La pianta che muore
è una bocca in cerchio
la radice che muore
è la sentenza della pigrizia del tempo
nel maltempo della radice
sono sazia d'aver amato l'amore
sazia del corpo del grano e della paglia
senza il pane

il contrario delle felicità
non è un dito fuori dalla scarpa
ma il piede dentro il corpo.



      Anila  Hanxhari      da      Brindisi degli angeli

martedì 30 gennaio 2018

A DEBITA DISTANZA 1


" La tristezza non va dispersa perché ha in sè la condensazione della possibilità "  ( S.K.)


(...)Un'unica, intensa, incoercibile volontà di sottrazione alla prosa
     del mondo accomuna Kleist, Kierkegaard e Kafka, solidali nell'
     intento di prendere congedo dalle rispettive fidanzate o,
     perlomeno, di mantenerle rigorosamente a debita distanza . Un
     analogo, radicale, estremo desiderio di solitudine, quasi una
     necessità ,per certi versi una condanna, che viene posta in
     essere attraverso complesse e molteplici motivazioni, realizzata
     attraverso strategie assai differenziate, ma convergenti nella
     caparbia ostinazione che non può accogliere le ragioni dell'
     altro, indifferente al doloroso dissenso di chi viene abbandonato
     senza essere colpevole di alcunché.
     Kleist si isola dal brusìo del mondo esterno alla nichilistica
     ricerca di un amore esclusivo in cui si dissolva ogni presenza e
     si dischiuda una prossimità assoluta; Kierkegaard sembra
     declinare ogni responsabilità relativa alla configurazione etica
     dell'esistenza, rifugiandosi nel dominio extraterritoriale del
     religioso; ancor più esplicitamente Kafka si rintana in una
     cantina nella quale può isolarsi dal rumore del mondo e
     salvaguardare le istante indivisibili della scrittura.
     L'ambivalenza della solitudine - subìta ma anche ricercata - è
     esemplificata molto bene da una parabola raccontata da
     Schopenhauer : " Una compagnia di porcospini, in una fredda
     giornata d'inverno, si strinsero vicini vicini, per proteggersi col
     calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto - però -
     sentirono le spine reciproche e il dolore li costrinse ad
     allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di
     riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripetè quell'altro
     malanno, di modo che venivano sballottati avanti e indietro
     fra due mali, finchè non ebbero trovato una moderata distanza
     reciproca che rappresentava per loro la migliore posizione".
     Il dilemma originario dei porcospini sembra adattarsi bene
     al senso della nostra esperienza: la solitudine è intollerabile,
     ma gli aculei della vicinanza sono ancora più dolorosi .(...)

Marco Vozza  da  A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate )
     

A DEBITA DISTANZA 2


(...) La tiepida distanza intermedia è certamente il compromesso
      abituale, ma i protagonisti della nostra storia non sembrano
      inclini ad alcun compromesso. Kafka scriverà nel 1922 a Max
      Brod :" Che dire della solitudine? In fondo essa è la mia unica
      meta, la mia più grande attrattiva, la mia possibilità". Si tratta
      cioè di organizzare la propria vita affinché la solitudine - per
      quanto orribile - si trovi a proprio agio e con essa la scrittura,
      che le è consustanziale.
      In palese conflitto con la scelta della solitudine al fine di
      tutelare la propria singolarità, i nostri autori ( i quali - come si
      comprenderà sin dalle prime pagine - sono personaggi 
      concettuali di chi scrive ) avvertono l'esigenza (per lo più 
      disattesa ) di una palpitante condivisione del loro universo
      interiore, mediante la presenza ( non troppo invadente ) di una
      donna che appaia loro come vocativo o dedicataria di esclusive
      trame concettuali e avventure esistenziali.
      All'interno della dialettica esistenziale tra solitudine e
      condivisione, si insinua un'altra ,ineludibile dimensione di
      scelta, quella di una vita che asseconda la fluida e
      ingovernabile logica del desiderio e quella più rassicurante e
      continua regolata da una logica degli affetti. Logiche tra loro
      eterogenee che appaiono inconciliabili ai protagonisti della
      storia qui ricostruita ( Kierkegaard e Kafka )  e che talvolta
      inducono ad un esito tragico ( come nel caso di Kleist ).


Marco Vozza da  A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka , Kleist e le loro fidanzate )

L'OSSESSIONE DI HEINRICH 1

 
 

                                                                  Heinrich von Kleist


(...) Erede di una nobile famiglia prussiana molto attiva fra le alte
      gerarchie militari, Heinrich von Kleist attese il ventitreesimo
      anno di età per fidanzarsi con Wilhelmine von Zenge, figlia del
      comandante della guarnigione di Francoforte. Gli Zenge
      dovevano essere molto affabili, espressione di quella
      socievolezza che favorisce relazioni personali piacevoli ma
      superficiali. Così il giovane Kleist ebbe a notare la profonda
      differenza che sussiste tra una pur brillante chiacchiera e una
      conversazione che richiede la capacità di indugiare e di
      soffermarsi a lungo su un argomento, analizzandolo in ogni
      sua parte fino ad esaurirne il potenziale d'attrazione. Con
      tale esercizio si consegue comunque una delle mete più
      auspicabili concesse all'uomo,  cioè la sua integrazione nell'
      uniformità adattiva del sociale, mentre lo scrittore, l'artista, il
      filosofo perseguono un altro , più impervio e problematico
      scopo che può essere raggiunto soltanto attraverso la
      solitudine, il pensiero, la cautela e la precisione.
      Fin da ragazzo Kleist aveva individuato lo scopo della sua
      esistenza, la sua peculiare destinazione - o meglio - la
      condizione trascendentale che rende possibile qualsiasi
      esistenza : edificare un piano di vita  e porlo davanti a sé come
      ideale regolativo che orienta ogni esperienza. Perseguire
      questo disegno di vita esige il doloroso affrancamento dalle
      tradizioni familiari e richiede la presa di congedo dalla
      carriera militare e da ogni altro impegno per dedicarsi
      esclusivamente alle scienze, alle arti e alla filosofia : " soltanto
      mediante tale ferma risoluzione, incomprensibile agli spiriti
      ignavi , sarà possibile essere soddisfatti di sé, consapevoli della
      propria dignità e godendo della " gioiosa visione" della
      bellezza morale del nostro Io. " (...)

Marco Vozza da  A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate )

L'OSSESSIONE DI HEINRICH 2



(...) Improvvisamente, nell'estate del 1800, Kleist parte per un
      viaggio misterioso" intrapreso senza alcuno scopo", suscitando
      l'apprensione dei familiari ai quali richiede assoluto riserbo.
      Alla sorella scrive che il raggiungimento dello scopo del
      viaggio " dipende in gran parte dalla possibilità di tenerlo
      celato a tutti", mentre alla fidanzata confida che la felice
      conclusione di tale viaggio renderà finalmente possibile la
      soddisfacente manifestazione del loro amore. Si è congetturato
      a lungo sul motivo del viaggio kleistiano e sul segreto in esso
      celato, arrivando perlopiù a ipotizzare ( peraltro senza alcun
      fondamento testimoniale)che l'obiettivo fosse quello di
      rimuovere - forse chirurgicamente - un ostacolo che inibiva
      l'attività sessuale dello scrittore. Dopo aver fatto notare che
      differenti patologie della sfera sessuale sono state evocate
      anche a proposito di Kierkegaard e di Kafka, si vorrebbe qui
      avanzare un'altra ipotesi - altrettanto fantasiosa - ma affine e
      compatibile con la tacita visione del mondo manifestata dai
      protagonisti della nostra storia.
      Allontanandosi da Francoforte - comunque - l'uomo
      inesprimibile pone a debita distanza la fidanzata , la trasforma
      nella destinataria delle sue prolisse missive e perfeziona il suo
      lavoro di idealizzazione, conferendole quelle caratteristiche
      che la sua prosaica appartenenza sociale nonché la sua
      insufficiente formazione culturale le negano: questo potrebbe
      costituire l'arcano di un viaggio inesplicabile, il senso di un'
      ardua rotta progettata con saggezza dall'audace timoniere, il
      cui approdo coinciderà con il concepimento dell'amore . (...)


Marco Vozza  da  A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e lo loro fidanzate )

    

lunedì 29 gennaio 2018

LA MONADE DI FRANZ 1

 
 

                                                                          Franz  Kafka


(...) Franz Kafka  vive nel " continuo terrore di non saper più
      scrivere ", inetto e sconsolato come un vecchio che la sera
      torni a casa con la merce invenduta. Spesso la sua vita manca
      di giustificazione, così da identificarsi esclusivamente con la
      malattia, con l'astenia cronica, con l'inconsolabile malinconia,
      con la sofferente disarmonia, con la colpevole esclusione dal
      mondo degli individui attivi. L'affetto e le attenzioni di Felice
      assolvono ad una funzione vicariale di giustificazione esogena
      senza riuscire a placare completamente l'inquietudine di un
      uomo che deve legittimare con indistruttibile evidenza il senso
      del proprio venire al mondo, di una nascita che Kafka non ha
      mai considerata compiuta in modo soddisfacente.
     " Senza scrivere, ero in lite con me stesso", confinato al nulla,"
      se non scrivo c'è come una mano intransigente che mi allontana
      dalla vita", confida Franz a Felice. Lei lo osserva senza
      comprenderlo:" il tuo sguardo non vuole fissarmi,passa sempre
      al di sopra di me", rendendolo ancora più incerto col negargli
      un sia pur formale conforto relativo ai racconti che le ha
      inviato :" sii gentile col mio povero libro!", implora Franz.
      Egli cerca il sostegno di una donna risoluta e vivace, ma
      contraddittoriamente, desidera anche una sensibilità che
      probabilmente si è già estinta attraverso la dispersione
      consumata nel mondo esterno.
      Ora egli vede con chiarezza l'estraneità della donna alla sua
      vocazione letteraria, la sua appartenenza ad un mondo che
      sfugge alle domande improrogabili dell'esistenza, che non
      avverte l'esigenza di giustificare la propria vita e, al fine di
      reprimere l'imperscrutabile senso - neppure l'istanza di
      prendere dimora nel mondo dei significati. Tra quest'ultimo
      mondo, che egli colloca in una inattingibile sfera iperuranica
      o piuttosto ipogea e il mondo degli affetti, che prende forma
      nella prossimità condivisa dell'esistere, sussiste per Kafka - che
      pure ha sempre avvertito un inestinguibile richiamo verso la
      comunicazione fra i due mondi - una dolorosa estraneità, una
      distanza siderale che neppure l'incontro con Mìlena saprà
      colmare . (...)

Marco Vozza  da  A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka , Kleist e le loro fidanzate )

LA MONADE DI FRANZ 2


(...) Franz ( Kafka ) è una monade assoluta, la quale ha chiuso
      porte e finestre sul mondo esterno, producendo" l'iniziale realtà
      di una bella esistenza", ma che subito avverte l'istanza di un
      legame non vincolante, a debita distanza ( " proprio nella
      distanza sta almeno una parte del mio diritto a te", scrive a
     Felice),una presenza che generi calore ma non intimità,conforto
      ma non fusione. Kafka allude qui all'esperienza di Grillparzer,
      un altro suo sodale:"se dovessi intuire che tu, creatura benigna
      attiva, vivace, sicura di te, non potresti vivere in comune con la
      uniforme nebulosità della mia natura, senza dare ascolto alla
      tua pietà, me lo potresti dire sinceramente?".
      Quando il legame perdura nel tempo,assumersi la
      responsabilità dell'abbandono genera un tormento lacerante; 
      Franz cerca ormai di dissuadere Felice :" non potresti vivere
      accanto a me neppure due giorni - afferma sconsolato - 
     " acquisteresti un uomo malato,debole, poco socievole,taciturno
       malinconico, rigido, quasi disperato" , anche se vorrebbe
       ancora trascinarla " nella grande fragilità " che egli
       rappresenta, come testimone esclusiva del suo malinconico
       e spettrale percorso esistenziale. Come raggiungere una
       verità durevole  nella convivenza, che sia esente da menzogne
       e che tuteli al tempo stesso la singolarità ? . (...)


Marco Vozza da   A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate )

LA MALINCONIA DI SOREN 1

 
 
 
Soren  Kierkegaard
 
 
(...) A Copenhagen " in questo angolo di cornacchie, questo covo
      della prostituzione borghese, in questa città dove non si può
      vivere felici se non a patto di essere una nullità " nasce, il 5
      Maggio 1813 Soren Kierkegaard.
      A ventiquattro anni conosce Regine Olsen,figlia quattordicenne
      di un influente consigliere di Stato, ragazza di bell'aspetto e di
      buon carattere, con la quale Soren si fidanzerà nel 1840, due
      anni dopo la morte del padre. Ma l'anno successivo, dopo varie
      peripezie che generarono nella ragazza gravi crisi depressive,
      Kierkegaard le restituisce l'anello di fidanzamento e rompe
      definitivamente il rapporto.
      Un gesto sofferto il suo, compiuto da un individuo affetto da
      una complessa sindrome psicopatologica, per la comprensione
      della quale andrebbe convocata l'intera letteratura psichiatrica
      filosofica e letteraria che si è espressa fin dall'antichità sul
      tema della malinconia . Nei Diari , Kierkegaard rappresenta
      costantemente il suo profilo psicologico come temperamento
      malinconico e considera tale peculiarità responsabile in ultima
      istanza dell'impossibilità di mantenere il rapporto di
      fidanzamento nella naturale prospettiva del matrimonio.
      In una lettera che accompagna il dono di una rosa e che rivela
      il profilo tetro del suo immaginario necrofilo, il filosofo scrive
      alla fidanzata che egli è " testimone malinconico del suo
      progressivo appassire ": constata come lo stelo si sia inaridito,
      come le foglie piegate lottino contro la morte, come il profumo
      sia andato perduto, come infine essa sia destinata ad essere
      deposta " in una tomba bianca e pura ", sigillata dalla donna
      amata.
      Indugiando nel suo spleen tardo romantico, Kierkegaard scrive
      di muoversi nel vuoto, l'unica dimensione che egli riesce a
      percepire, condannato a morire la morte giorno per giorno
      perché essa è la forma della vita, dalla quale non scaturisce un
      solo pensiero che sappia connettere il finito e l'infinito. Per
      effetto corrosivo di un dubbio ipertrofico, di un'angoscia
      onnipervasiva : " la mia anima è come il Mar Morto, su cui
      nessun uccello può volare perché - giunto a metà della via -
      precipita sfinito nell'abisso mortale".  (...)


Marco Vozza  da  A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate )

LA MALINCONIA DI SOREN 2



(...) Tutti vengono partoriti nel dolore, ma alcuni continuano a
      vivere per il dolore come discepoli dell'angoscia . Nel caso del
      filosofo danese," l'angoscia, il dolore e lo smarrimento avevano
      lentamente forzato il catenaccio della coscienza", una
      disperazione che disperde ogni amabilità pur disponibile nella
      vita di un uomo. La consapevolezza che viene elaborata è
      nichilisticamente declinata :" qual qualcosa che sono io è
      esattamente un niente ", un'esistenza in suspenso , incapace di
      aderire alla configurazione del reale, tetragona dell'
      affermazione e incline al forse .
      L'educazione ricevuta dal padre, vegliardo malinconico , è
      all'origine della malinconia  di Soren, così ben metabolizzata al
      punto da diventare quasi una causa endogena, cronica, che poi
      la morte del padre rafforza come causa esogena, acquisita.
      Dunque malinconia congenita e potenziata nel corso del tempo.
     " La morte di mio padre fu per me un colpo così tremendo che
       non ne ho mai parlato con nessuno. Il proscenio della mia vita
       è oltremodo velato dalla più tetra malinconia e dalle nebbie
       della miseria diffusa nella profondità della mia anima che non
       fa meraviglia se io ero quello che ero. Ma tutto questo resta
       un mio segreto. In altri forse ciò non avrebbe prodotto un'
       impressione così profonda: ma si pensi alla mia fantasia e
       specialmente nei primi tempi quando essa non aveva alcun
       compito cui applicarsi. Questa malinconia congenita, questa
       immensa dote di dolore, questa situazione così profondamente
       dolorosa come l'essere educati da bambini da un vegliardo
       malinconico".
       Nei confronti del padre, Soren rimarrà sempre umanamente
       riconoscente, perché è comunque un dono ereditare un'
       infelicità permanente e una cospicua dote di dolore. (...)


Marco  Vozza  da   A debita distanza ( Kierkegaard, Kafka, Kleist e le loro fidanzate ) 

sabato 27 gennaio 2018

NON DIPENDE DA ME

 
 

                El sol si le llamo, vendrà; se detendrà en mi voz y hasta la eternidad...


Che tu ci sia o non ci sia
ormai è la stessa cosa,
- comunque sia - io
ho la nostalgia .


         Patrizia Cavalli    da    Datura

DI CHE COSA PARLANO LE DONNE ( quando parlano d'amore ) 1

 

                                                             Las mujeres, el amor lo inventan...



(...) Nella mia famiglia, dove gli uomini non hanno mai vantato una
      significativa presenza numerica e neppure goduto di eccessiva
      considerazione, circolava un caustico quanto prosaico detto
      popolare : " Le donne non portano nel letto gli asini perchè
      stracciano le lenzuola ". Mia madre lo attribuiva alla propria
      nonna - che non ho mai conosciuto - ma non sapeva dirmi da
      quante generazioni se lo tramandassero. Cresciuta in un
      solidissimo matriarcato meridionale, non riuscivo ad
      attribuirgli un' allusione misogina, così non ho mai pensato -
      per esempio - che si riferisse alla scarsa selettività femminile
      in faccende erotiche. Ma piuttosto all'inclinazione che hanno
      le donne a dedicarsi a una certa attività trasfigurativa: quella
      per cui l'oggetto d'amore - qualora ve ne sia necessità  e a
      dispetto di qualunque evidenza - può diventare l'uomo dei sogni,
      quello che si diceva una volta il Principe Azzurro. Si fermano
      davanti all'intollerabile visione del quadrupede ragliante, ma
      non prima: tutto ciò che lo precede nella scala dell'improbabile
      è soggetto a trasformazione: per solitudine, perché non c'è di
      meglio, oppure inseguendo la chimera di un cambiamento, di
      un miglioramento del compagno incontrato.
      Il fatto è che le donne, ben lontane dal pragmatismo maschile,
      o anche da una cinica accettazione dello status quo , coniugano
      la realtà con un'attività onirica che rende possibile
      l'impossibile, bello il brutto e così via.
      In un certo senso, il proverbio della mia antenata, si può
      considerare la versione arcaica di quel dialettico e consapevole
    "  Las mujeres,  el amor lo inventan ..." (...)


Iaia  Caputo  da  Di cosa parlano le donne ( quando parlano d'amore )

DI CHE COSA PARLANO LE DONNE ( quando parlano d'amore ) 2



(...) E perché non parliamo d'amore a un uomo così tanto e mai
      nello stesso modo in cui ne parliamo tra noi?
      Intanto perché solo tra donne possiamo dire ciò che nel
      rapporto con l'altro resta fuori: il sogno, l'attesa, la disillusione
      ma anche il rancore, la rabbia, l'amarezza. Tutta un'attività
      parallela di progetti e illusioni, di speranze come di concrete
      valutazioni e giudizi che un uomo - comunque - è meglio non
      sappia . E non solo per compiacerlo o per continuare a farlo
      scorrazzare felice in quell'eterno giardino d'infanzia che gli
      abbiamo costruito intorno; o ancora, per un atavico e sincero
      timore di ferire l'altro e di gravarlo di responsabilità che siamo
      abituate a caricarci sulle spalle.
      C'è qualcosa di più in questo piacere della parola " separata"
      e monosessuale sull'amore. Perché non confessare che quest'
      attitudine femminile al discorso sull'uomo - e in assenza dell'
      uomo - è animata da un residuo di disprezzo e diffidenza ,
      oscuramente confusi con la paura verso chi consideriamo
      irrimediabilmente straniero e usurpatore, tirannico occupante
      e diverso, più potente ma solo perché più forte?
      Così che questa parola d'amore, che solo tra donne si fa tanto
      intima e autentica, suggerisce l'ombra, la separatezza, ma
      anche la segretezza. Fino a scivolare - nel peggiore dei casi
      verso l'inganno, l'intrigo.
      Separatezza, segretezza, ombra per infinite generazioni di
      donne hanno coinciso con l' apartheid del nostro sesso , che
      però ora è stato combattuto e in gran parte cancellato,superato
      (...).


Iaia  Caputo  da  Di che cosa parlano le donne ( quando parlano d'amore )
       

DI COSA PARLANO LE DONNE ( Quando parlano d'amore ) 3



(...) Tuttavia, ancora tra donne - e solo tra donne - ci si dice ciò
      che l'altro non deve sapere o non saprà mai , o almeno, in quel
      momento. Perchè sarebbe inutile, perché ci penseremo noi,
      perché riteniamo di aver visto meglio e più lontano di lui, e così
      toccherà a noi fare in modo che talune cose accadano, che
      altre si realizzino, oppure cambino. Temiamo ancora gli uomini
      come stranieri? Li disprezziamo perché irrimediabilmente
      diversi, occupanti, intrusi? O quello che ancora teniamo per
      noi è l'inscalfibile convinzione di sapere di più e meglio degli
      uomini le cose dell'amore? E che cosa ci restituirebbe questo
      primato: un'attitudine, una superiore sapienza, una maggiore
      familiarità con gli affanni umani o con il senso più ultimo e
      autentico dell'esistenza?
     " Siamo le curatrici della specie umana", mi aveva detto un'
      amica per spiegare il talento a fare nostri gli affanni e i
      tormenti, e a trasformare l'altro in una risposta a una domanda
      di senso che riguarda noi stesse. Ma in questa competenza
      stanno - come le due facce di un Giano bifronte - subalternità
      e dominio, forza e debolezza, sapienza e dannazione.
      Se spostarsi da questa posizione di conflitto e contrapposizione
      significa rinunciare a stare con i piedi ben piantati nel centro
      della vita, allora ci resto: non ci rinuncio per avere in cambio
      una più lieve consapevolezza di me, una più superficiale e
      distratta cognizione del senso da attribuire alla mia vita.
      Ma vorrei - quello sì - spostarmi anche rinunciando a molto
      del mio spazio, se questo potesse far posto a un uomo. Perché
      vorrei condividere una posizione perdendone - qualora poi vi
      sia - anche il " privilegio"; vorrei che da quell'osservatorio ci
      fosse posto per entrambi, maschi e femmine.
      Perché se è vero che le donne riescono a " conoscere il mondo
      attraverso l'amore ", da tempo ormai gli uomini hanno smesso
      di coincidere con il mondo.  (...)


Iaia  Caputo   Di che cosa parlano le donne ( quando parlano d'amore )

venerdì 26 gennaio 2018

L'ADOLESCENZA DELL'OBLIO ( Introduzione )



(...) Il mondo interiore di Kikì Dimulà, che parla il linguaggio degli
      oggetti, del quotidiano e delle sue presenze più umili - la
      polvere, gli occhiali, le fotografie, il giornale, il cognac,persino
      una forma grammaticale - si incontra poi con realtà intangibili,
      inesprimibili.Ed è proprio da questo incontro, ora sorprendente
      ora stridente, che nasce la sua poesia e l'emozione profonda dei
      suoi testi.
      I protagonisti apparenti della sua opera non sono che i segni,
      le occasioni per entrare nell'altra dimensione: quella dell'
      assurdo, talora del paradosso, e comunque sempre in una
      realtà interiore dove a valere sono altre regole, diverse da
      quelle del mondo esterno.
      E questo discorso vale anche su un piano linguistico.La sintassi
      della sua poesia è una sintassi che non segue le regole
      codificate della lingua ufficiale, ma le regole dettate dal suo
      mondo interiore, risultando dunque una lingua " trasgressiva"
      a livello tanto lessicale quanto grammaticale e sintattico.
      Con coraggio e creatività, Kikì Dimulà sfida continuamente le
      regole grammaticali in nome di quelle non scritte della sua
      estetica. I suoi versi sembrano così minacciare le radici stesse
      della lingua, ma per restituirla rinnovata in una sintassi che
      sia più consona ad esprimere le verità sottili del suo
      immaginario interiore.
      Gli aggettivi diventano verbi; i sostantivi avverbi; gli avverbi
      sostantivi in un'apparente anarchia, eppure profonda armonia
      delle parole, con l'uso di metafore che stupiscono e rapiscono
      allo stesso modo. (...)


          Paola Maria Minucci   da      L' adolescenza dell'oblio


L'ADOLESCENZA DELL' OBLIO

 
 
 
 
                    Voglio avere la coscienza in pace di aver sofferto per tutto...



LA " O " DISGIUNTIVA

Mi ha chiuso in casa la pioggia
e ora dipendo dalle gocce.

Ma come sapere se è pioggia
o lacrime dal cielo profondo di un ricordo?
Sono troppo cresciuta per dare
senza riserve un nome ai fenomeni :
questa è pioggia e queste sono lacrime.

Rimango asciutta tra
due possibilità: pioggia o lacrime,
e tra tante ambigue realtà:
pioggia o lacrime,
amore o modo di crescere,
tu o piccola oscillante ombra
dell'ultima foglia che saluta.
Ogni ultima cosa,
la chiamo ultima senza riserve.

Sono troppo cresciuta
perché questo sia motivo di lacrime.
Lacrime o pioggia, come saperlo?
E continuo a dipendere dalle gocce.
E sono troppo cresciuta
per aspettare una misura quando piove
e un'altra quando non piove.
Gocce per tutto.
Gocce di pioggia o lacrime.
Dagli occhi di un ricordo o dai miei.
Io o il ricordo, chi lo sa.
Sono troppo cresciuta per distinguere i tempi.
Pioggia o lacrime.
Tu o piccola oscillante ombra
dell'ultima foglia che saluta.


                             §§§§§§§§§§§§§§§§§§§


CRAVATTA  NERA

Innaffia tu la pianta
e lasciami piangere.
Scrivi però le ragioni,
forse devo altro dolore.
Voglio avere la coscienza in pace
di avere sofferto per tutto.

Scrivi che piango per uno specchio.
Un tempo oggetto ornamentale,
oggi oracolo.
Per la brusca buonanotte
che danno le poche possibilità
e si dileguano.
Scrivi che piango per la tua finestra,
chiusa e senza saluti,
melanconica per nascita.
Per gli uccelli dell'ultimo decennio.
Il loro terrore delle antenne televisive.
Per il loro adattarsi
e svolazzare
tra questi alberi di ferro.
Impararono a cantare
su rami di ferro.

Scrivi.
Per questo sabato sera sepolto
tra due cipressi
nella chiesa di campagna.
Per la luna in lutto - indossa
una cravatta nera nuvola,
scrivi che piange.
Piango perché mi hai chiesto
se ho visto la luna piena.
No, non ho visto niente di pieno, non ho vissuto.
Piango perché i ragazzi portano lo zaino
come una conoscenza già completa,
e non entrano nel tenero rassicurare
delle ore ancora acerbe
e non giocano.

Scrivi che piango per le madri.
Le mie più antiche madri.
Belle ed esili,
amanti delle finestre,
arpiste della vendetta
che la morte ha colto impreparate
e sono longeve materne
nelle fotografie del salotto
e nei ricami.

Piango perché hanno accesole luci
e la domenica gatta raggomitolata
sulla mia finestra.
La paura si veste a festa
e aspetta.

Scrivi.
Che piango per le bufere,
il poco cibo,
per tutto il Poco,
per i terremoti
senza preavviso.
piango perché va sprecata
la notizia che mi hai dato
della prima farfalla vista ieri.
Piango perché non fa notizia l'effimero.

Scrivi. Piango
perché la sorte si è chiusa in casa,
la dilazione è arrivata al boia,
la borraccia è arrivata nel deserto,
la gioventù nella fotografia.
Piango perché chissà chi chiuderà
dei miei giorni gli occhi.

Innaffia tu la pianta
e lasciami piangere perché...


                       §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§


TERRA IN MAIUSCOLA

Ultimamente - per leggere -
per riconoscere, per conoscere,
mi tiro un po' indietro
e spingo più lontano
quello che devo vedere.
Subentra una nuova distanza
tra me e ciò che miro.
Altrimenti non vedo.
Voglio dire che la vista
per unirsi con ciò che vuole
deve pre- vivere
una separazione.
Altrimenti non vedo.

E' naturale, dicono i medici.
Qualche grado di presbiopia,
qualche gradazione di stanchezza
per l'età il duro
lavoro nelle miniere dell'indistinto.
Devo mettermi occhiali da vicino.

Davvero naturale, questo.
Dovermi mettere gli occhiali
per poter vedere
l'evidente.

Ciò che è evidente lo vedo,
vedo bene dove vanno a parare le cose,
mi vedo affrontarle
a mani cieche
e con pianti legati
mi vedo pre-vivere una separazione.
Se cade la pioggia con la maiuscola
la vedo,
se cade con la minuscola
mi piace.
Mi vedo cadere con la minuscola.
Quel che ho visto non l'ho visto
soltanto con i miei occhi.
Anche la difficoltà è una vista.
Le cose capitali
sono riuscita comunque a leggerle.
Con il sentimento ho visto
segni e prodigi.
E mi metterò gli occhiali
per leggere chiaramente la terra maiuscola
che mi ingoierà,
cadrò con le minuscole
cadrò con le maiuscole?

Pensa,
mettermi occhiali da vicino!
Avvicinare con gli occhiali
ciò che è vicino.
Io che non l'ho avvicinato né con gli occhi
né con i miei pezzi.
Eh no! Mettermi gli occhiali
per vedere i miei pezzi.


        Kikì   Dimulà    da     L' adolescenza dell'oblio

giovedì 25 gennaio 2018

AMORE - EMANA

 


                           Tu peux venir dans mes bras pour me dire que tu m'aimes...
                           ( senza amore...il sole non esiste senza amore...)


Ti amo come un livido di foglie sul corpo
neanche il bosco contiene tanti rami quante braccia
la nostra giostra amore
il sole ci vede e ci sostiene su un punto solo
quello che muove gli occhi per non andare via dal tronco

Ama me come si ama la potatura selvatica del faro
senza sarcasmi, senza seme nei granai
con la fame del corvo al seno
se rimango nel fuoco senza muovere lo sciame
e vivo il volto, i getti negati nell'alveare
o non amarmi affatto!

Amo te
che vieni a prendermi dal fondo delle braccia
a braccia aperte
e incidi una nota con la bocca stretta all'aurora
non riesco più a sentire la nota
il tempo che corrode la lingua di vetro
l'ascesa del sangue del frumento
non avevi un piano per la potatura dei tigli
una fiamma in più per l'inverno
ci incontreremo prediletti
nei fumetti d'alabastro
fino a sentire l'eloquenza della pietra
fino a smettere di essere pietra
quando passerà l'allodola di vento

Ama me, amo te, ama me
cielo e pietra e carne
astemia di neve, di millenni
vino di albero infante

Amo te ama me amo te
e ci pensi tu ad accompagnare la mia bocca
non saranno mai confusi i lacci
sapranno annodare le zolle
le ruote della macchina
e la mia bocca sulla tua onda
in due facciamo un mare e una nave
e una stagione di naufraghi
ci mettiamo qualcosa addosso quando piove
solo una bocca in due può bastarci
il cambio di ruota, i fiori che vengono nutrendo
l'acqua profonda
e nel punto del ritorno l' àncora alla gola.


                     Anila  Hanxhari                 Inedito

OLTRE L'OMBRA ( Donne intorno a Jung ) 1

 
 

                                                             E' solo questione di uomini...



(...) Le donne protagoniste di questo libro sono allieve della prima
      generazione e sono state scelte perché hanno vissuto anche
      tutta la vita accanto a Jung.  Tratterò così di Toni Wolff ed
      Emma Rauschenbach Jung, di Barbara Hannah e Marie Louise
      von Franz, di Aniela Jaffé e Risvak Scharf Kluger, di Liliane
      Frey Rohn e Jolande Jacobi.
      Sono tutte donne provenienti da famiglie agiate, spesso
      aristocratiche, appartenenti comunque all' élite culturale della
      società degli inizi del 900, portatrici di sofferenza e di conflitti
      e che vedono nell'analisi una possibilità nuova di comprensione
      e di raggiungimento di senso, oltre che una possibilità di
      emancipazione.Sia in campo freudiano che in campo junghiano
      troviamo donne di grande valore che hanno dato un contributo
      sostanziale allo sviluppo della psicologia del profondo come
      pazienti e come allieve e analiste. Nel corso della mia ricerca
      ho potuto constatare tuttavia come esse siano state tutte molto
      reticenti nel raccontare la propria vita e i rapporti significativi
      che l'hanno contrassegnata ( tranne la von Franz ) e tutte
      caratterizzate da una profonda introversione. Perciò la
      biografia vera e propria rimarrà sullo sfondo e ciò vale anche
      per le opere. Di tutte ho cercato però di far emergere le
      peculiarità della loro identità femminile, là dove mi sembrava
      che si estrinsecasse meglio. Inoltre mi sono proposta di non
      parlare di quelle opere ove veniva esposto soltanto il pensiero
      di Jung, impresa assai difficile questa, in quanto i riferimenti
      al Maestro sono sempre stati frequenti e inevitabili. (...)


         Nadia  Neri   da  Oltre l'ombra  (  Donne intorno a Jung )