mercoledì 29 novembre 2017

PINK FREUD ( De André ) 1

 


                                                      amore che fuggi, da me tornerai...


(...) L'amore va, l'amore viene, dipende... Com'è noto, Faber
      scrisse nel '66 " Amore che vieni, amore che vai", un brano che
      nel suo insieme potrebbe benissimo suonare come una canzone
      d' Oltralpe, stile Brel, ad esempio. La canzone ricorda una
      macchina teatrale barocca che solo in alcuni momenti e in
      alcune sfumature lascia cogliere all'ascoltatore l'intera
      prospettiva, l'orizzonte in tutta la sua complessità. Sembra -
      infatti - una canzone greve, dall'andatura pesante, all'
      apparenza forzata. L'incedere della musica unita alla voce di
      Faber offrono un'immagine di tragica solennità, di sofferta e
      ineluttibile nostalgia. L' una intrecciata all'altra contribuiscono
      ad evocare un atto, quello proprio alla confessione di una
      verità, incommensurabilmente sconfortante perché figlia dell'
      evidenza di una costatazione: è così e non altrimenti, è così e
      non poteva e non potrà mai essere diversamente. Si scrive
      amore ma si pronuncia delusione. Tuttavia, il brano è
      attraversato al suo interno da un movimento melodico che
      costituisce una sorta di controcanto nei confronti di quell'
      entrata ridondante e massiccia con cui la canzone si presenta
      e, per certi versi, si sviluppa. " Amore che vieni, amore che vai"
      mima l'oscillare cadenzato di un cullare antico, come se
      ripetesse in questa parola non espressa, trascinata lungo tutto
      l'arco del pezzo, quella risposta che insistentemente  il testo
      insegue.
     " Le canzoni le ho scritte così, come mi hanno aggredito, per
       incontenibile riaffiorare di memoria ", commentava a riguardo
       De André. E " Amore che vieni, amore che vai", sembra il
       manifesto di quell'affetto che si consuma tra la domanda e
       l'intenzione, tra l'aspirazione e una rabbia rivendicativa a
       stento trattenuta. Il protagonista  vorrebbe - forse - ardire a
       giocare la carta di chi è desiderato. Un osare che - tuttavia -
       potrebbe restituirgli la sua tristezza, raddoppiata. In quel
       momento, infatti, sarebbe difficile sottrarlo all'incontro con la
       crudeltà di un disinteresse che lo lascerebbe ulteriormente
       ferito. L' Altro sfaterebbe ogni malinteso, dissolverebbe ogni
       equivoco, palesando che se lui non può vivere senza di lei, lei
      - invece - può farne benissimo a meno. O - anche - viceversa .
       Rimane solo una profezia, fragile e frustrata, un rancore
       minaccioso appena dissimulato " amore che fuggi, da me 
       tornerai..." .  (...)


            Angelo Villa  da  Pink Freud ( Psicoanalisi della canzone d'autore da Bob Dylan a Van De Sfroos )

PINK FREUD ( De André ) 2



(...) Il lamento pare così senza scampo. Un vicolo cieco nel quale
      la domanda d'amore si consuma. Il testo - in fondo - consegna
      all'ascoltatore un'ulteriore sorpresa, la più significativa. L'
      eredità della passante si è trasformata in un testamento per l'
      osservatore. Come scrive Freud parlando della melanconia, l'
      ombra dell'oggetto si è depositata sull ' Io. Tra chi passa e chi
      guarda, tra chi fugge e chi rimane aggrappato a un'attesa che,
      nell'indecisione che coltiva, funge da alibi per il proprio
      desiderio, scorre il fiume caotico dell'identificazione. Le parti
      si confondono, si scambiano,dietro le finestre dalle tende tirate,
      dalle persiane socchiuse, dove solo si mette in mostra
      rivendicazione e sconfitta. L' uomo che guarda assomiglia
      eccessivamente alla passante, il soggetto all'oggetto della sua
      attenzione. Entrambi soffrono del medesimo male, condividono
      l'identica noia. L'uno è l'altra, e viceversa.
      Ci si chiedeva un bacio, non a caso. " amore che vieni, amore
      che vai... / a chiederci un bacio e volerne altri cento...". Quel
      noi che  il " ci" sottende, rende bene - al fondo - l'idea.
     " Io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai..." canta Faber.
       Sembra rinfacciare all' Altro quel che ha ricevuto,
       restituendogli la pariglia. E' tanto preso dal gesto, da
       dimenticare - mentre lo richiama - che lui stesso è divenuto
       quella passante contro cui si rivolta. Ne ha fatto proprie le
       sembianze, le ha tolto di bocca, le ha rubato le sue parole.
       Quelle che - per la verità - l' Altro non gli ha forse mai detto
       con chiarezza, ma che giacevano lì - silenti - nel suo sottrarsi.
       (...)


     Angelo Villa  da  Pink Freud ( Psicoanalisi della canzone d'autore da Bob Dylan a Van De Sfroos )

lunedì 27 novembre 2017

INCANTEVOLE DONO

 
 

                                                               Una foglia e l'altra... ( frida )


Una foglia e l'altra. Un'altra
di diverso colore
e nelle mani dalla carne sfiorita
le tieni impresse,
costrette solamente alla loro bellezza.
Mi sorridi e d'intorno
sei sospensione del tempo,
un filo d'erba che ignora il suo prato.

Incantevole dono il tuo.


             Roberta  Dapunt    da      Le beatitudini della malattia

TRASFORMATI IN PAROLE

 
 


                                                                      Que reste - t - il ...


Trasfòrmati in parole:
senza più compagnia di fiati e di viole
facendo posto alla tua vita
la mia più niente ha a che fare
con gli anni
se correndo intorno a un solo nome
è sempre di te e di me che si tratta
e sempre le stesse armi
potenti di lutto e afflizione
che pure nei sogni a rovina
inseguono la mia levigatezza.
Ti vedo sui tuoi passi tornare ancora
più sottile le braccia già esitanti le gambe
nel tempo lentissimo della paura.


      Cosimo Ortesta   da           Serraglio primaverile



LE STORIE CHE CURANO ( Freud-Jung- Adler ) 1

 
 

" Fare anima significa affrontare il viaggio verso la Grande Soglia, che è la terra dell'immaginale"


(...) Un tempo l'arte dello scrivere si prefiggeva un intento
       terapeutico, quello di donare la catarsi e l'unità tematica a un'
       anima. Oggi può mettere a nudo, ma raramente guarisce.
       Come i terapeuti hanno ignorato il loro impegno nella poiesis,
       così i poeti hanno dimenticato la loro funzione terapeutica.
       Nel nostro secolo non ci volgiamo alle arti per guarire.
       Abbiamo una nuova arte cui si richiede questa funzione : la
       psicoterapia. Perfino gli artisti vanno in analisi e questo
       perché la psicoterapia, più delle arti, è impegnata nel
       riportare l'anima della Prosa alla Poesia ( come dice Hegel ):
       una redenzione della psiche, dal suo pedestre " realismo" a un
       risveglio, da parte del cuore che immagina, delle sensibilità,
       delle intimità, dei ricordi.  La terapia riscatta il mondo sottile
       delle immagini dal mondo grossolano dei fatti, e volge l'anima
       verso gli Dei. Per questo - naturalmente - ha invaso il campo
       delle arti e della critica d'arte diventando, coi suoi rituali, i
       suoi maestri, le sue " botteghe", la forma d'arte predominante
       nel nostro tempo. Essa è la sola che ardisca di penetrare nella
       vita immediata dell'anima individuale e di impegnarvisi, con
       l'intento di  guarirla dalla sua condizione prosaica e
       offrendole una nuova storia per le sue immagini. (...)


             James Hillman  da   Le Storie che curano ( Freud-Jung-Adler )

LE STORIE CHE CURANO ( Freud-Jung-Adler) 2


(...) Questa " storia", questa finzione, l'ho chiamata " base poetica
      della mente". Immagino che la mente sia fondata non sulle
      microstrutture del cervello o del linguaggio, ma su quelle storie
      supreme, gli Dei, che costituiscono i modelli fondamentali del
      nostro agire, credere, conoscere, sentire e soffrire, dove
      possono persino trovare dimora. E' soltanto nelle storie che
      questi Dei si mostrano ancora. La mente è fondata  nella sua
      stessa attività narrativa, nel suo fare fantasia. Quel " fare" è
      poiesis . Conoscere la profondità della mente significa
      conoscere la sue immagini, leggere le immagini, ascoltare le
      storie con un'attenzione poetica che colga in un singolo atto
      intuitivo le due nature degli eventi psichici, quella terapeutica
      e quella estetica.
      Nell'atto di cogliere l'immagine, la coscienza poetica e quella
      terapeutica si fondono in un unico punto focale: l'interesse
      appassionato per l'immagine. Tutti siamo pazienti dell'
      immaginazione.
      Il suo carattere di inutilità non solo allontana la psicoterapia
      dagli schemi medici di guarigione e dai modelli secolari di
      assistenza, ma la porta anche ad una miglior comprensione
      dell'accusa che le viene mossa di essere un lusso cui indulge la
      classe agiata. Elitaria, ombelicale, narcisistica; il divano, una
      chaise - longue per il borghese, e l'appellativo di " nevrotico"
      qualifica riservata soltanto a chi può pagare per sentirsi
      definire tale.
      Questi addebiti dimostrano quanto la gente comune abbia
      avvertito che la psicoterapia è un'attività estetica.
      Le stesse identiche accuse sono state rivolte all'arte. (...)


            James Hillman  da   Le Storie che curano ( Freud-Jung-Adler)


LE STORIE CHE CURANO ( Freud-Jung- Adler )3



(...) L'addebito deve essere psicologizzato: non la classe agiata, ma
      piuttosto la classe poetica, e non in quanto ceto sociale  o
      economico, ma come classe nel senso platonico, dove il termine
      indica una prospettiva interna al corpo politico, esistente anche
      in ciascun individuo. Non soltanto i poeti sono poeti: una parte
      di ciascuno di noi funziona poeticamente e appartiene alla
      classe poetica. Questa classe è continuamente impegnata nell'
      attività immaginativa, che dal punto di vista delle altre classi è
      sempre inutile e sempre una piacevole perdita di tempo.
      La psicoterapia è l'arte che coltiva questa classe della psiche.
      Essa coltiva le sue attività immaginative, quelle che di continuo
      tornano sulla finzione di curare il nostro amore, il nostro
      passato, la nostra morte. Come tale, la psicoterapia è un'
      educazione all'abilità immaginativa della classe che ha tempo
      a disposizione: insegna l'arte di vivere tra immagini. Inoltre,
      come qualunque altra arte, la psicoterapia è interminabile: c'è
      sempre un'altra figura della fantasia, un altro sentimento o un
      altro sogno che chiedono di essere modellati.  (...)


            James Hillman  da   Le Storie che curano ( Freud-Jung-Adler)

LE STORIE CHE CURANO ( Freud-Jung- Adler) 4



(...) Vedere la terapia su un fondo estetico - avendo presente la
      terza critica di Kant, e non la prima e la seconda ( ragione ed
      etica ) - richiede una revisione dei nostri progenitori: Freud,
      Jung, Adler . Per vederci impegnati nella terapia come arte,
      dobbiamo vedere anche loro impegnati allo stesso modo,
      leggerli come facilitatori di immagini la cui lotta essenziale si
      svolgeva con le passioni e le configurazioni dell'immaginazione
      Dobbiamo cioè deletteralizzare le teorie freudiane, junghiana e
      adleriana e apprezzarle di nuovo come tentativi di formulare
      l'immaginazione in storie, per il cui tramite la poiesis possa
      procedere in ogni anima individuale,attraverso il travestimento
      immaginativo chiamato " cura". Poiché non era la cura ciò che
      più contava nel loro rapporto con i casi - compreso il proprio -,
      bensì il fare immagini.
      La storia del movimento psicoanalitico è di per sé come un
      romanzo continuo, in cui ogni nuovo capitolo si apre con
      rivelazioni sui personaggi principali - le loro lettere, le loro
      battaglie, i loro incesti -. Il romanzo della psicoanalisi ne
      anticipa le " teorie". Lo sviluppo del pensiero di Freud e la
      scoperta di Jung della psiche autonoma così come viene
      narrata nelle sue memorie, si dispiegano come trame
      romanzesche, popolate da straordinari personaggi fiabeschi.
     " Tutto sta nella mente " diceva la psicoanalisi, " compresi i
       casi e i loro fatti, compresa la stessa psicoanalisi".
       Perché la mente è poiesis , che " fa " finzioni letterarie per
       guarirsi dai suoi poeti letteralizzati.  (...)


              James  Hillman   da   Le Storie che curano ( Freud, Jung, Adler )


LE STORIE CHE CURANO ( Freud- Jung- Adler ) 5



(...) La capacità della psicoterapia di guarire dipende dalla sua
      capacità di continuare a ri-raccontarsi in rinnovate letture
      immaginative delle sue stesse storie. E' per questo che in modo
      ricorrente torniamo ai nostri fondatori, come gli Scolastici a
      Tommaso, come gli americani a Whitman, Hawhtorne e
      Melville. La filosofia platonica è rimasta vitale dopo 2500 anni
      perché Platone, e quel meraviglioso vecchio bislacco di 
      Socrate sono stati ri-visti daccapo da ciascun platonico in ogni
      periodo.
      Quel che rende una psicoterapia capace di guarire - e per 
      guarire intendo restituire il senso del vivere e del morire all'
      interno di un cosmo immaginale; un ricondurre la propria
      costrizione umana ai modelli di necessità che governano l'
      immaginazione - quel che rende ogni terapia capace di guarire
      è una percezione immaginale di se stessa, quell'orecchio 
      rivolto a ciò che sta facendo, dicendo, scrivendo.
      Essa cura costantemente il proprio linguaggio con un terzo
      occhio, un terzo orecchio. Ogni arte in cui si inaridisce l'
      immaginazione diventa una scuola letterale, una serie di
      tecniche, una professione. Quando la psicoterapia non è più
      capace di ascoltare i propri fondatori come figure dell'
      immaginazione che parlano all'immaginazione, o di trattare
      come voci i propri principi, cosa può dire allora alle figure
      e alle voci del paziente?
      Il modo migliore di mantenere il flusso delle immagini perché
      la poiesis possa continuare, è quello di lasciare che le voci
      dell'anima- come i personaggi di una fiaba - continuino il
      loro racconto anche quando il libro è già chiuso. La psiche
      consiste essenzialmente  in immagini - diceva Jung - e noi
      dobbiamo sognare il mito insieme ad essa. Siamo guidati da
      finzioni- diceva Adler - e anche i nostri scopi sono finzioni.
      Analisi interminabile - diceva Freud. La cura durerà finchè
      potrà essere mantenuto il senso romanzesco, perché la morte
      è l'unica vera guarigione - diceva Socrate.
      Che questa visione sia priva di fondamento corrisponde a quel
      carattere di inutilità che viene riferito alla classe poetica.
      Fatevi coraggio.  (...)


              James  Hillman   da   Le Storie che curano ( Freud- Jung-Adler )

            
                     

domenica 26 novembre 2017

IO - DONNA - FRA DONNE

 
Nella giornata della NON VIOLENZA, anche le Donne Masai hanno diritto ad un fiore...
 
 
                                                       Donna masai con la sua bimba


                                                                    Famiglia masai




                                                      frida


                          

                               

sabato 25 novembre 2017

DONNE



Leolo, il personaggio del bellissimo film di Jean- Claude Lauzon, assediato dalla follia e dall'orrore, si ripeteva:

                         Siccome sogno, non sono pazzo,
                         siccome sogno, non lo sono....


Galeano ci narra un mondo pazzo, ma pieno di dignità e di sogni.
Questa raccolta è stata fatta - pertanto - attraverso il sogno e la poesia.
Ogni donna qui rappresenta tutte le donne. E tutte loro ci salvano dalla follia.
E vuole essere nel contempo - in questo giorno - anche un segno di consapevolezza collettiva e un segnale di riscatto per un'umanità femminile troppo spesso vilipesa e angariata.


                        Siccome Galeano scrive, io sogno;
                        siccome sogno, non sono pazzo.


                                    frida

SHERAZADE

 
 

                                     Dalla paura di morire nacque la maestria del narrare...


(...) Per vendicarsi di una, che l'aveva tradito, il re le sgozzava
      tutte. Al tramonto si sposava e all'alba diventava vedovo.
      Una dopo l'altra, le vergini perdevano la verginità e la testa.
      Sherazade fu l'unica a sopravvivere alla prima notte, e poi
      continuò a cambiare racconto: uno per ogni nuovo giorno di
      vita.
      Quelle storie - da lei ascoltate, lette o immaginate - la
      salvarono dalla decapitazione. Le narrava a voce bassa, nella
      penombra della camera da letto, alla luce solo della luna.
      Mentre le narrava, provava piacere e lo dava, ma faceva molta
      attenzione. A volte - nel bel mezzo del racconto - sentiva che il
      re le stava studiando la nuca.
      Se il re si annoiava era perduta.
      Dalla paura di morire nacque la maestria del narrare . (...)


            Eduardo  Galeano   da    Donne

IPAZIA

 
 

                                                                        Non sembra una donna...


(...) " Va con tutti", dicevano, volendo infrangere la sua libertà.
       " Non sembra una donna ", dicevano, volendo elogiare la sua
         intelligenza.
         Ma numerosi professori, magistrati, filosofi e politici
         accorrevano da lontano alla Scuola di Alessandria per 
         ascoltare la sua parola.
         Ipazia studiava gli enigmi che avevano sfidato Euclide e
         Archimede, e parlava contro la fede cieca, indegna  dell'
         amore divino e dell'amore umano. Lei insegnava a dubitare e
         a domandare. E consigliava : " Difendi il tuo diritto di
         pensare. Pensare sbagliando è meglio che non pensare ".
         Che cosa faceva quella donna eretica facendo lezione in una
         città di maschi cristiani?
         La chiamavano strega e fattucchiera, e la minacciavano di
         morte.
         E un mezzogiorno del marzo dell'anno 415, la folla le si
         scaglià contro, e fu strappata dalla sua carrozza e denudata
         e trascinata per le strade e picchiata e accoltellata. E nella
         piazza pubblica il rogo si portò via quel che restava di lei.
        " Verrà fatta un'indagine", disse il prefetto di Alessandria.(...)

                             
                     Eduardo Galeano  da      Donne 

LO SCIOPERO DELLE GAMBE CHIUSE

 
 

                                                                    Donne della Grecia Antica


(...) Durante la guerra del Peloponneso, le donne di Atene, Sparta,
      Corinto e della Beozia si dichiararono in sciopero contro la
      guerra.
      Fu il primo sciopero delle gambe chiuse della storia universale.
      Accadde a teatro e sorse dall'immaginazione di Aristofane e
      dall'arringa che lui mise in bocca a Lisistrata, matrona
      ateniese : " non alzerò i piedi verso il cielo e neppure mi
      metterò a quattro zampe con il culo per aria! ".
      Lo sciopero continuò - senza tregua - finchè il digiuno amoroso
      piegò i guerrieri. Stanchi di combattere senza consolazione e
      spaventati di fronte alla ribellione femminile, non poterono far
      altro che dire addio ai campi di battaglia.
      Lo raccontò, lo inventò - più o meno così - Aristofane, uno
      scrittore conservatore che difendeva la tradizione come se ci
      credesse; ma in fondo credeva che l'unica cosa sacra fosse il
      diritto di ridere.
      E ci fu pace sulla scena.
      Nella realtà no.
      I Greci combattevano ormai da vent'anni quando quest'opera
      fu rappresentata, e la strage continuò per altri sette anni.
      Le donne continuarono a non avere diritto diritto di scioperò 
      né di opinione, né nessun altro diritto se non quello di
      obbedienza ai compiti propri del loro sesso. Il teatro non era
      contemplato fra questi compiti. Le donne potevano assistere
      alle opere nei luoghi peggiori, che erano le gradinate più alte,
      ma non potevano rappresentarle. Non c'erano attrici.
      Nell'opera di Aristofane, Lisistrata e le altre protagoniste
      erano interpretate da uomini che portavano maschere 
      femminili. (...)


                 Eduardo  Galeano  da       Donne 

TITUBA

 
 

                                                                        Narrava racconti di fantasmi...


(...) Nell' America del Sud era stata catturata- nella sua infanzia -
      ed era stata venduta una volta e un'altra e un'altra, e di
      padrone in padrone era andata a parare nella città di Salem,
      nell' America del Nord.
      Là, in quel santuario puritano, la schiava Tituba serviva in
      casa del reverendo Samuel Parris.
      Le figlie del reverendo l'adoravano. Loro sognavano ad occhi
      aperti quando Tituba narrava loro racconti di fantasmi e
      gli leggeva il futuro nel bianco di un uovo. E nell'inverno del
      1692, quando le bambine vennero possedute da Satana e si
      rivoltolavano e gridavano, solo Tituba riuscì a calmarle, e le
      accarezzò e gli sussurrò racconti finchè non si addormentarono
      sul suo grembo.
      Questo la condannò: era lei che aveva messo l'inferno nel
      virtuoso regno degli eletti da Dio.
      Fu così che la maga cantastorie fu legata al patibolo, nella
      pubblica piazza, e confessò.
      L'accusarono di cucinare dolci con ricette diaboliche e la
      frustarono finché non disse di sì.
      L' accusarono di ballare nuda nei sabba e la frustarono finché
      non disse di sì.
      L' accusarono di dormire con Satana e la frustarono finché non
      disse di sì.
      E quando le dissero che le sue complici erano due vecchie che
      non andavano mai in chiesa, l'accusata divenne accusatrice e
      indicò col dito quel paio di indemoniate e allora non venne più
      frustata.
      E da quel momento la forca non smise più di lavorare. (...)


              Eduardo  Galeano   da                   Donne 



LE ETA' DI GIOVANNA LA PAZZA




                                                         " Sei matta! " , le grida il marito...


(...) A sedici anni la sposarono con un principe fiammingo. La
      sposarono i suoi genitori,, i Re Cattolici. Lei non aveva mai
      visto quell'uomo. A diciotto scopre il bagno: una fanciulla
      araba del suo seguito le insegna le delizie dell'acqua. Giovanna
      entusiasta, si fa il bagno tutti i giorni. La regina Isabella,
      spaventata, commenta: " mia figlia è anormale".  A ventitré
      tenta di recuperare i suoi figli, che per ragion di Stato non vede
      quasi mai " mia figlia ha perso la testa ", commenta suo padre,
      il re Ferdinando. A ventiquattro, in viaggio per le Fiandre, la
      nave fa naufragio: lei - impassibile - esige che le servano il
      pranzo. " Sei matta " , le grida il marito mentre è in preda al
      panico, in un enorme salvagente. A venticinque si lancia contro
      alcune dame della corte e, con le forbici in mano, tosa loro i
      riccioli per il sospetto di tradimento coniugale.
      A ventisei rimane vedova. Il marito, appena proclamato re, ha
      bevuto acqua gelata, ma lei sospetta che fosse veleno. Non
      versa una lacrima, ma da allora si veste sempre di nero.
      A ventisette passa le giornate seduta sul trono di Castiglia, con
      lo sguardo perso nel vuoto. Rifiuta di firmare le leggi, le lettere
      e tutto quello che le portano. A ventinove suo padre la dichiara
      demente e la rinchiude in un castello sulle rive del fiume Duero
      Catalina, la minore delle sue figlie, l'accompagna. La bimba
      cresce nella cella accanto e da una finestra vede giocare gli
      altri bambini. A trentasei rimane sola. Suo figlio Carlos, che
      sarà presto imperatore, si porta via Catalina. Lei dichiara uno
      sciopero della fame fino a che non tornerà. La legano, la
      picchiano, la obbligano a mangiare. Catalina non torna.
      A settantasei, dopo quasi mezzo secolo di vita prigioniera,
      muore questa regina che non regnò. Non si muoveva da molto
      tempo, con lo sguardo perso nel vuoto.  (...)

              Eduardo Galeano     da    Donne


IL PERICOLO DI PUBBLICARE ( Myrna Mack )

 
 
             
                                                      Nel mio Paese sei morto se pubblichi...


(...) Nell'anno 2004, il Governo del Guatemala interruppe per una
      volta la tradizione di impunità del potere e riconobbe
      ufficialmente che Myrna Mack era stata assassinata per ordine
      della Presidenza del Paese.
      Myrna aveva intrapreso una ricerca proibita: nonostante le
      minacce, si era addentrata nelle foreste e sulle montagne dove
      vagavano - esiliati nel loro stesso paese - gli indigeni che erano
      sopravvissuti alle stragi militari. E aveva raccolto le loro voci.
      Nel 1989, durante un congresso di Scienze Sociali, un
      antropologo statunitense si era lamentato della pressione delle
      università che obbligavano a produrre continuamente: " Nel
      mio Paese " disse " se non pubblichi sei morto".
      E Myrna disse : " Nel mio Paese sei morto se pubblichi".
      Lei pubblicò.
      La uccisero a pugnalate .  (...)

              Eduardo Galeano    da    Donne

LA RESURREZIONE DI CAMILLE

 
 

                                           Bronzo che balla, marmo che piange, pietra che ama...


(...)   La famiglia la dichiarò pazza e la rinchiuse in un manicomio.
        Camille Claudel passò là - prigioniera - gli ultimi trent' anni
        della sua vita.
       " Fu per il suo bene" dissero.
       Nel manicomio, carcere gelido, si rifiutò di disegnare e di
       scolpire. La madre e la sorella non l'andarono mai a trovare.
       Qualche volta si fece vedere suo fratello, Paul, il virtuoso.
       Quando Camille - la peccatrice - morì, nessuno reclamò il suo
       corpo. E ci vollero anni prima che il mondo scoprisse che
       Camille non era stata solo l'umiliata amante di Auguste Rodin.
       Quasi mezzo secolo dopo la sua morte, le sue opere rinacquero
       e viaggiarono e stupirono: bronzo che balla, marmo che
       piange, pietra che ama. A Tokyo, i ciechi chiesero il permesso
       di palpare le sculture. Poterono toccarle. Dissero che le
       sculture respiravano.  (...)

             Eduardo  Galeano    da    Donne

giovedì 23 novembre 2017

SUL FINIRE ( la ballata del ...dopo )

 
 

                                                                             Tienimi come sai...



Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli...

Nella consegna del sonno
ho trovato la parola.

Si parla all'orecchio di una foresta
- talvolta.
Ci si abbandona al sogno
come un petalo all'acqua
e
discorrendo delle vite percorse
si ama
ferendo interstizi di luce
con fasci
d'occhi negli occhi.

Nel veto ombroso
della notte
ho scritto dei passi.
Un timbro d'impronta
per salire
dai muschi al sole.
Ho relegato nel petto
la veggenza del sogno
-abbandonata
la muta cerca di sguardi -
e
raccolti i capelli
ho sorpreso l'Amore
incamminarsi davanti
coi calzari alle mani.


Avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza...

Non parlo volentieri
del male
perché non mi abita.
Non farnetico di cose
che potrebbero
essere
solo perché
non furono.
Credo all'addio
come a una profezia
perché un corpo
si inebria di tutto.
E tutto comprende
come la terra
dopo l'aratura.

Io non sono dissimile
dai pianeti a sfera
che l'universo accoglie.
Mi prendo i doni
in doni da dare
e le parole accolgo
irrorate dal sogno.

E le emozioni
- miei lumi notturni -
sono sempre sentieri
che a te mi conducono.
E' il destino.
Il vero destino
di chi ha il cuore
sempre abitato.


Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato...

Ho fertili solchi
che sono stati incisi
come si dona l'abito
al saio di un unico voto.
Risiede nel Sempre
l'essenza dell'anima
e sanguino
per le radici tagliate
ai moribondi tronchi
sui fili scoscesi
delle pendici.

So amare
l'erba condannata alla falce
unendo al suo
il mio sangue.
Perché ciò che resta
di vero
è l'essere partecipi
degli umori stillanti
del mondo.


Ma se non avessi l'Amore, nulla mi giova...

Ho piccole corone di gemme
da darti
e gennai paralleli
ai tuoi inverni
ma messi a dimora
al caldo dei semi
che tengo nel palmo.
Come promessa di boschi
di radure e chiome
svettanti.
Tienimi
come sai
perché la natura è chiara
nella promessa
che tutto si conchiude
in Amore.

Non ha le sue verità
né infausti giorni
perché il male si compie
per altre mani.
Non cercarlo qui
nel silenzio dei pioppi
le folaghe a svernare
che vociano sul lago.
E' altrove
il male.
E chiunque
forse
è un possibile altrove.


Conosco in modo imperfetto...

C'è un sonno
meraviglia di abbandono
e un cuore che pulsa
da una corrente madre.
L'ho conosciuta
un giorno
e fu come diventare
cenere
prima di un fuoco.

Smetto di chiedere.
Dismetto i rostri
e i pinnacoli
e gli avvistamenti alle fortezze.
Disarmo le uscite.
Con scettro di fuscello
tocco
un muto sasso
e la verità
esce dalle labbra.

Di tutto.
Proprio di tutto.
Di tutto  più grande
è l'Amore.


                       frida



IL DESIDERIO ( Respiro della psiche )1

 
 
                               
                                                            Rembrandt   "  Susanna e i vecchioni "


(...) Il desiderio investe l'intera nostra esistenza. Ne siamo
      pienamente avvolti. E' il principio dell'intero sviluppo psichico.
      Lo dinamizza:" Nulla, all'infuori di un desiderio, è in grado di
      mettere in moto il nostro apparato psichico" ( S. Freud ) .
      Il desiderio attraversa tutte le età: con lo scorrere degli anni
      possono cambiare i contenuti, ma non l'impulso a desiderare.
      Anche se - lungo il percorso  più o meno coscientemente o più
      o meno segretamente - ci sono obiettivi che sappiamo essere
      destinati a restare inappagati, non desistiamo di perseguirli.
      Ci aiutano a restare giovani, anche se centenari.
      La mancanza di desideri è il segno della fine della gioventù e
      il primo e lontanissimo avvertimento della vera fine della vita.
      Desiderare è dunque uno scommettere sull'andare oltre,
      sull'autotrascendersi,

    " I giorni del futuro ci stanno davanti
       come una fila di candele accese,
       calde, dorate e luminose. "

           (  Konstantinos Kavafis )

      Il desiderio poggia sulla memoria del passato, ma è soprattutto
      tensione verso il futuro. E' regressione, ma è anche meta.
      Si snoda da ciò che già si è conosciuto, ma è anche apertura
      al nuovo. Nel desiderio c'è racchiuso un progetto, vi è sottesa
      una speranza che mira a rinnovare la vita. Ogni esperienza di
      desiderio è infatti trasformazione. Nulla rimane come prima
      in colui che desidera.
      Non va tuttavia ignorato che il desiderio presenta un volto
      ambiguo, variegato e talvolta addirittura tragico. Può essere
      vissuto come una ricerca tenace e costante fino alla
      realizzazione di quanto ci si propone; come un guardare
      indietro, come un arresto momentaneo, quasi a voler prendere
      fiato; oppure - più drammaticamente - come una sconfitta fino
      a gettare la spugna.
      Il desiderio è conflitto, è rischio: può essere obbligato,
      manipolato, annullato, mascherato come accade nei sogni e
      nei sintomi. Espone - allo stesso tempo - all'esperienza della
      presenza e dell'assenza, della vicinanza e della distanza, della
      fusionalità e della separatezza. Il desiderio può essere
      espressione di arricchimento o di espropriazione, di dominio
      o di sottomissione, di dono o di ricerca di qualcosa che manca,
      di autonomia o di dipendenza, di intimità o di isolamento, di
      riconoscimento o di alienazione, di narcisismo o di reciprocità,
      di amore o di odio, di vita o di morte. Tutti volti - questi -
      descritti molto bene dai poeti. (...)


            Vittorio Castellazzi   da   Il desiderio ( Respiro della psiche)
     

IL DESIDERIO ( Respiro della psiche ) 2



(...) Una caratteristica del desiderio è la spinta ad intraprendere
      viaggi avventurosi, fatti di memorie del passato e di tensioni
      verso il futuro: verso regioni, territori e orizzonti sconosciuti,
      che ci appaiono suggestivi e che ci attirano senza sapere
      chiaramente il perché.
      Ciò che desideriamo, lo sappiamo più inconsciamente che  con
      la ragione. " Nessuno è mai là dove si crede, ma ciascuno è
      sempre là dove il desiderio lo spinge ". ( U. Galimberti ).
      Scrive Nietzsche :
     
    " Quando - un giorno - arriviamo a toccare la nostra meta,
       mostriamo con orgoglio quali lunghi viaggi abbiamo fatto per
       giungervi. In verità non c'eravamo accorti di essere in viaggio.
       Ma appunto per questo ci eravamo spinti tanto lontano da
       illuderci di essere - in ogni luogo - a casa nostra. "

      Il desiderio narra la nostra storia e la storia dell'intera
      umanità. Rivela le ragioni del nostro vivere e del vivere degli
      altri. Ci informa sulle rappresentazioni di noi stessi e di coloro
      con cui interagiamo. Il desiderio dell'uno è - infatti - in stretta
      connessione con il desiderio dell'altro, per cui è mediante la
      relazione intersoggettiva che viene tracciato il profilo del " chi
      sono io" e, allo stesso tempo, del " chi è l'altro". Di riflesso,
      viene definita la nostra e l'altrui identità. E' dunque seguendo
      le tracce del desiderio che è possibile cogliere le molteplici e
      labirintiche sfumature della psiche umana.
      Per il nostro benessere non è tuttavia sufficiente essere 
      oggetto di desiderio dell'altro, occorre anche essere causa di
      desiderio dell'altro.
 
    "  Sentire - almeno a volte - che siamo l'ideale per l'altro, è
        altrettanto importante da un punto di vista evolutivo che
        imparare a tollerare i propri limiti e le proprie imperfezioni."(Jacques Lacan )

                            


          Vittorio Castellazzi   da  Il desiderio ( Respiro della psiche )