giovedì 31 agosto 2017

Edipo Re

 
 


                   "  La Sfinge a Edipo : l'abisso in cui mi spingi è dentro di te "



                              Pier Paolo Pasolini   da     Edipo re

IL SEGRETO DEL FIGLIO 1



                                                                 Padre e figlio - Daniele Lancini



(...) Il nostro  tempo sostiene- in diverse forme - la necessità del
      dialogo tra genitori e figli come principio educativo prioritario.
      Di fronte al lento, sebbene traumatico, processo di erosione
      dell'autorità paterna che ne ha visto dissolvere ogni versione
      padronale, il dialogo sembra aver preso giustamente il posto
      del comando brutale che avevano caratterizzato il volto
      tristemente noto del padre- padrone . Un cambiamento epocale
      è avvenuto: padri e figli si trovano in una prossimità
      sconosciuta sino a poco tempo addietro. I padri non sono più il
      simbolo della Legge ma - come le madri - si occupano anche
      del corpo, del tempo libero e degli affetti dei loro figli.
      Questa prossimità - effetto del giusto indebolimento dell'
      autorità paterna - può essere certamente salutata come una
      positiva emancipazione del discorso educativo da princìpi
      normativi eccessivamente rigidi. Mai nessun tempo come il
      nostro ha dedicato tanta attenzione premurosa al rapporto tra
      genitori e figli. Il figlio assomiglia sempre più a un principe
      al quale la famiglia offre i suoi innumerevoli servigi. Il rischio
      è che questa premura inedita giustifichi un'alterazione della
      differenza simbolica che distingue i figli dai genitori: i figli
      rivendicano la stessa dignità simbolica dei loro genitori, gli
      stessi diritti, le stesse opportunità. In questo modo la
      prossimità che caratterizza il nuovo legame tra genitori e
      figli rischia di avallare una vicinanza di eguali - o peggio -
      una sorta di immedesimazione confusiva frutto di un'
      orizzontalizzazione del legame che smarrisce così ogni senso
      di verticalità. La retorica pedagogica del dialogo - oggi
      imperante - è , ai miei occhi, un effetto macroscopico di
      questa confusione.
      Lo stesso discorso vale per la parola " empatia" divenuta
      egemone e imprescindibile in ogni ragionamento psico-
      pedagogico. Una supposizione di fondo ne sostiene un uso
      inflazionato: parlare con i figli significa capire i figli,
      riconoscersi in loro, condividere le loro gioie e le loro
      sofferenze- insomma - vivere la loro vita.
      Non è questo il modello politically correct che deve essere
      sostenuto e diffuso? E chi - del resto - si sognerebbe di negare
      l'importanza del dialogo e della comprensione empatica nel
      rapporto tra genitori e figli? (...)


       Massimo  Recalcati     da       Il segreto del figlio

IL SEGRETO DEL FIGLIO 2



(...) In questo libro, attraverso la lettura di due celebri figli e del
      loro complesso rapporto con i rispettivi padri - l' Edipo di
      Sofocle e il Figlio Ritrovato della parabola evangelica di Luca ,
      si vuole problematizzare criticamente questo esito del discorso
      educativo ipermoderno, provando ad indicare l'esistenza di
      un'altra strada. Non quella della valorizzazione, spesso solo
      retorica, del dialogo e dell'empatia, ma quella del
      riconoscimento che la vita di un figlio è innanzitutto una vita
      altra, straniera, distinta, differente, al limite, impossibile da
      comprendere. Il figlio non è forse un mistero che resiste ad
      ogni sforzo di interpretazione? Un figlio non è precisamente un
      punto di differenza, di resistenza, di insorgenza incontenibile
      della vita? E non è questa la sua bellezza fulgida e insieme
      minacciosa? Non è - la sua vita - un segreto indecifrabile che
      deve essere rispettato come tale?  (...)


             Massimo  Recalcati   da   Il segreto del figlio

IL SEGRETO DEL FIGLIO 3



(...) L' enigma del figlio è ciò che inquieta il padre di Edipo, Laio  -
      avvertito dall'oracolo che suo figlio sarà destinato a diventare
      il suo assassino e il possessore della sua sposa - al punto da
      spingerlo a prendere la terribile decisione di ucciderlo. Nel
      mito di Edipo, Laio reagisce al suo destino di morte- per mano
      del figlio - esigendo la morte del figlio. Egli non è in grado di
      riconoscere in lui il mistero minaccioso e al tempo stesso
      fulgido e fecondo che ogni figlio è per i suoi genitori. La vita
      del figlio non deve forse oltrepassare quella di chi lo ha
      generato, non deve sancirne la morte, il tramonto inevitabile?
      L'oracolo, quando predice il destino di Edipo, non sta svelando
      a Laio una verità inaggirabile e universale del rapporto tra
      padri e figli? Il carattere " minaccioso" di ogni figlio - come
      quello di ogni allievo per un maestro - non è ciò che impone
      ineluttabilmente la morte delle proprie origini, dei propri
      padri? Il figlio, nella sua venuta al mondo, non ricorda a chi lo
      ha generato il suo destino mortale? La vita del figlio non
      segnala forse sempre l'illimitatezza della vita e
     - di conseguenza - l'incombenza della fine che essa, come Hegel
      aveva indicato con vigore, rivela ai suoi genitori? (...)


               Massimo  Recalcati   da    Il segreto del figlio
        

IL SEGRETO DEL FIGLIO 4



(...) Questo libro prende le mosse da una rilettura delle vicende
      narrate nell' Edipo re di Sofocle e nella parabola lucana del
      figlio ritrovato, che hanno entrambe come presupposto l'
      intreccio dei destini dei figli e dei padri. La colpa del padri
      ricade sempre sui figli? L'assenza di desiderio nei genitori
      rende un figlio necessariamente maledetto, lo esclude
      inesorabilmente dall'accesso al desiderio? E quale Legge viene
      trasmessa da una generazione all'altra? La Legge del destino
      che sigilla la vita del figlio come ripetizione colpevole di quella
      dei padri o un'altra forma della Legge che ci invita a
      sospendere ogni inesorabilità della Legge?
      Edipo e il figlio ritrovato indicano l'oscillazione del processo di
      filiazione tra questi due poli. Il figlio Edipo resta imprigionato
      in un conflitto simmetrico con il padre senza possibilità di
      soluzione: infanticidio e parricidio si corrispondono
      specularmente. Il padre del figlio ritrovato, diversamente da
      Laio, mostra invece di saper sopportare il reale incondivisibile
      che la vita del figlio incarna. Egli non risponde al gesto
     " parricida " con l'odio, ma sceglie di dargli fiducia, di non
      ostacolare il suo viaggio. A differenza di Laio, egli mostra di
      non temere, ma di amare profondamente il segreto assoluto del
      figlio. Il figlio ritrovato incontra nel gesto del perdono del
      proprio padre che lo accoglie al suo ritorno, una dissimmetria
      che spezza ogni legame con una concezione della Legge come
      destino o pena inesorabile che schiaccia invece la vita di Edipo
      Questo padre sa riconoscere l'enigma del figlio senza esigere
      di risolverlo; egli si offre con una Legge il cui fondamento non
      si trova in alcun Codice, ma solo nell'atto stesso del perdono
      come forma più alta della Legge, come libertà della Legge.
      E' ciò che il figlio impara sulla sua carne viva: non è l'uomo
      che è fatto per la Legge, ma è la Legge che è fatta per l'uomo.
      (...)


            Massimo  Recalcati    da    Il segreto del figlio

IL SEGRETO DEL FIGLIO 5



(...) Il figlio incarna l'incondivisibile differenza della vita e la sua
      forza illuminata.Egli resiste ad ogni possibile immedesimazione
      empatica. Si muove nel mondo portando con sé non solo l'
      irriducibile differenza della sua generazione rispetto a quella
      dei genitori, ma anche la particolarità più inafferrabile della
      sua esistenza. Il dono del padre della parabola lucana - che è
      anche il dono più grande che ogni genitore può offrire ai propri
      figli - è il dono della libertà. Il padre non esige il dialogo - la
      comprensione reciproca - ma riconosce il desiderio del figlio
      come un enigma indecifrabile. E questa indecifrabilità non è
      forse un'esperienza costante di ogni genitore?Ma non è proprio
      da qui che sorge l'amore come apertura assoluta al mistero
      dell'alterità del figlio? Il rispetto per il segreto del figlio non
      indica forse che la genitorialità non è mai un'esperienza di
      acquisizione e di appropriazione, ma di decentramento di sé ?
      L'amore non è empatico, non si fonda sulla comprensione
      reciproca e sulla condivisione, ma è rispetto per il segreto
      assoluto dell' Altro, della sua solitudine; l'amore si fonda sulla
      lontananza della differenza, sull'incondivisibile, sul reale
      inassimilabile del Due. Ciò vale nel rapporto tra genitori e
      figli e ancora di più in ogni legame d'amore. La psicoanalisi
      autorizza ad affermare che i legami d'amore che sanno durare
      nel tempo ed essere generativi, sono quelli che non sciolgono
      mai l'enigma del desiderio dell' Altro, che sanno custodire il
      segreto assoluto - impossibile da comprendere - dell' Altro.
      Solo sullo sfondo di questa solitudine, di questo enigma che
      ciascuno è e deve restare per l' Altro - oltre che per se stesso -
      può darsi un essere in rapporto all' Altro, un essere insieme
      all' Altro .  (...)


             Massimo  Recalcati   da   Il segreto del figlio

Il vecchio e il bambino

 
 



                           sempre alla porta ad attenderli, senza mai chiedere loro di ritornare...

LA VITA DEI MIEI FIGLI



(...) Osservo la vita dei miei figli crescere, diventare autonoma e
      farsi ai miei occhi sempre più misteriosa. Penso che questo
      mistero sia il marchio di una differenza che deve essere
      preservata e ammirata anche quando può sembrare
      sconcertante. Resto sempre stupito di fronte alla loro bellezza e
      al loro splendore come di fronte al loro disordine e alla loro
      indolenza. Infinitamente diversi da come ricordavo la mia
      condizione di figlio, eppure così incomprensibilmente uguali.
      Non pretendo di sapere o di comprendere nulla della loro vita,
      che giustamente mi sfugge e mi supera. Nel camminare fianco a
      fianco - nel silenzio dei nostri corpi vicini - percepisco il
      rumore del loro respiro come una differenza inesprimibile. E'
      un fatto: ogni figlio porta con sé - già nel suo respiro - un
      segreto inaccessibile. Nessuna illusione di condivisione
      empatica potrà mai venire a capo di questa strana prossimità.
      La gioia tra noi accade proprio quando l'incondivisibile che
      ci separa genera una vicinanza senza nessuna illusione di
      comunione. I nostri figli sono nel mondo - esposti alla
      bellezza e all'atrocità del mondo - senza riparo. Sono - come
      noi tutti - ai quattro venti della vita nonostante o grazie all'
      amore che nutriamo per loro.
      Non so davvero nulla della vita dei miei figli, ma li amo proprio
      per questo. Sempre alla porta ad attenderli senza però mai
      chiedere loro di ritornare. Vicino non perché li comprendo, ma
      perchè stimo il loro segreto.  (...)


          Massimo  Recalcati   da   Il segreto del figlio


martedì 29 agosto 2017

DESTINO




                          Camminando tra le brezze, essere il porto degli uccelli...



Se non sono radice, e solo questo,
ahi, quando si vedranno il mio stelo e i miei fiori,
e quando nasceranno i frutti?
Quale giorno attende il tempo, quale l'aria,
e perché Dio mi vuole lancia oscura
nella sua dura terra?

Non è che non voglio più essere radice
quando già posso essere tronco, foglie, rami,
dei miei fiori più belli.
Frutto fra i denti degli uomini,
voglio continuare ad essere radice.
Spiccare il salto trascinando terra
e unirla al cielo.

Sempre radice, tra il grano
scuro come ora sono scura.
Ma andando verso il regno del volo,
camminando tra le brezze, essere il porto degli uccelli,
il legno della trave, e che le coppe
si colmino del mio corpo e della mia essenza.

Se non spero di essere fiore, aprimi in frutto,
avere tra le mani terra e cielo,
vibrare come colonna fra i due.
Tu Dio, tu che mi hai creato, non costringermi
ad essere una radice della terra:
radice, solo radice, profonda radice.




                          Carmen Conde   da    Senza  Eden




IL MISTERO DELLE COSE 1

 
 


                       " La vita fà l'analisi; la morte si incarica della sintesi."( Robert Sabatier )



MEMORIA, LUTTO E OBLIO

(...) Riguardo al grande tema della memoria e del suo rapporto con
      il lutto e con l'oblio, in psicoanalisi,  il problema della
     " dissoluzione dell'oggetto " è al centro di ciò che Freud  ha
      definito come lavoro del lutto  : la semplice presenza
      lascia il posto all'esperienza dell'assenza. E non è forse questo
      l'elemento primario del lutto? L'affetto luttuoso non segnala la
      perdita dell'oggetto, il suo assentarsi definitivo e senza
      ritorno? L'oggetto perduto scivola nel regno dei morti, non è
      più con noi, ci ha abbandonato.
      La perdita reale dell'oggetto amato ( " sovrainvestito
      narcisisticamente" secondo Freud ) rende possibili due diverse
      reazioni: quella di chi non riesce a liberarsi dal vincolo con
      l'oggetto perduto e si trascina addosso la sua ombra pesante,
      smarrendosi e tormentandosi per la sua assenza irrimediabile
      e, dall'altra parte, quella di chi opera un lavoro della memoria
      attorno al vuoto lasciato dall'oggetto perduto; un lavoro che
      richiede certamente tempo, dolore e fatica psichica ma che,
      una volta compiuto, può permettere l'elaborazione simbolica
      del trauma della perdita e il ritorno alla vita.
      Secondo Freud, la prima reazione si definisce come reazione
      melanconica , la seconda descrive invece l'esperienza del
      lutto come lavoro . Ma mentre nella reazione melanconica il
      soggetto non è mai giunto a un'esperienza radicale dell'assenza
      dell'oggetto perché esso è rimasto sempre presente , anzi è
      diventato, pur nella sua assenza materiale, una presenza
      insistente che assilla la vita del soggetto e impedisce
      qualsiasi progettazione dell'avvenire ( infatti, nel sentimento
      melanconico tutto resta inchiodato al tempo della perdita, tutto
      è perduto, tutto è già avvenuto ), nel lavoro del lutto l'assenza
      dell'oggetto è simbolizzata come tale . (...)


        Massimo Recalcati   da   Il mistero delle cose

IL MISTERO DELLE COSE 2



(...) La memoria dell'oggetto è necessaria, ma solo per lasciare
      andare l'oggetto al suo destino. E' l'incorporazione simbolica
      dell'oggetto che rende possibile la percezione della sua
      radicale assenza. La rievocazione psichica dell'oggetto
      pretende tempo e dolore, esercizio della memoria, ma solo per
      permettere al soggetto di assumersi realmente l'assenza
      irreversibile dell'oggetto. Questa memoria, ossia la memoria
      del lutto, insegue uno scopo paradossale: vuole ricordare e ,
      al tempo stesso, dimenticare . Al culmine dell'opera della
      memoria - del ricordo che restituisce una consistenza all'
      oggetto che non è più con noi - per Freud deve realizzarsi in
      una specie di oblio dell'oggetto che concede una nuova
      possibilità alla vita districandola dall'ombra dell'oggetto
      perduto. E' questo il paradosso interno alla
      concezione freudiana del lutto : il supplizio della

      memoria deve venire a conoscenza, nel suo punto più estremo,
      di un tempo di oblio, di una dimenticanza felice che non
      estromette la memoria - non corrisponde alla semplice
      rimozione di ciò che è doloroso ricordare - ma è un prodotto
      fecondo della memoria che permette di arrestare la ripetizione
      silenziosa del suo agire malinconico .  (...)


           Massimo Recalcati   da   Il mistero delle cose

lunedì 28 agosto 2017

VALI PIU' TU

 
 
 
              Vali di più tu - indifesa - di me che mi difendo…
 
 




Vali più tu
coi tuoi piedini piatti d'orsacchiotta
coi tuoi occhi asimmetrici
col tuo codino d'anatroccola che alzo
quando bacio la tua nuca
vali più tu con tutti i tuoi malanni
i tuoi veri spaventi immaginari
con la tua contentezza appresa dalla vita
( e non ti fu mai tenera! )

vali più tu
indifesa di me che mi difendo
vale più un tuo sfogo del mio star zitto
vale più un tuo sogno di una mia conquista
vale più un tuo sabath di una mia domenica
vale più la tua fame del mio appetito
vale più un tuo detto di un mio verso
vale più un tuo accenno sghembo di una mia rima
vale più la tua mente fresca della mia mente libresca
vali più tu che canti la tua Tosca
vali anche più tu con me vicino.


 Nelo  Risi   da   Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa

REATO DI VITA ( Alda Merini ) 1



MANGANELLI

(...) A quindici anni venni mandata a Torino per una grave
      anoressia iniziata durante la guerra a causa della vera fame
      che si era provata e aggravatasi per il dolore causatomi dall'
      interruzione degli studi ordinata da mia madre. Era nato mio
      fratello e non c'era da mangiare per tutti. I miei zii mi fecero
      curare dai migliori neurologi di Torino, ma non volevo guarire.
      Afflitta da una tremenda cecità isterica, un giorno il dottor G .
      alle Molinette ebbe una pensata: mi mise in mano un libro e mi
      ordinò bruscamente di leggerlo. Lo guardai negli occhi e
      nacque dentro di me La presenza di Orfeo .
      Una volta guarita, ripresi la via di casa ed esplosi in tutta la
      mia salute e bellezza.
      Fu in quel periodo che incontrai Manganelli e me ne innamorai
      perdutamente. Manganelli - secondo me - era un grosso
      chierico, un grosso ambulante del pensiero, amorevolissimo e
      casto come tutti i veri intellettuali. Malgrado fosse già sposato,
      sembrava un ragazzo alle prime armi: aveva paura di toccarmi
      e non sapeva come dirmi che mi voleva bene.
      Mi affidò alle cure di Fornari ( Franco Fornari, psicoanalista
      allievo di Musatti, n.d.r. ), il quale volle che andassi a lavorare
      per pagarmi l'analisi che durò esattamente cinque anni.
      Tra me e Fornari nacque un feeling meraviglioso che gli
      ispirò Carmen adorata . Difatti io ero una zingara,
      nerissima di capelli, vivace e un po' strafottente. Sarà Fornari
      a dirmi quelle parole magiche che io riporto nel Diario :
    " Il manicomio è come la rena del mare: se entra nelle valve di
      un'ostrica genera perle". La passione per Fornari mi sconvolse.
      Finii col litigare con Manganelli e tra i due corsero male
      parole. Io stessa offesi Fornari.
      Il mio terzo uomo divenne il Manicomio. La Bacunina - come
      mi chiamava Manganelli  per il mio carattere ribelle - sarà
      rinchiusa. Manganelli, non riuscendo ad ottenere un divorzio
      consensuale dalla moglie e vedendosi portar via la figlia,
      fuggì da Milano su una lambretta che tenne poi con sé per
      tutta la vita. Quando egli morì, mi successe un fenomeno strano
      ogni giorno mi si slegavano le scarpe. Ero io che a Manganelli,
      quasi obeso già da giovane, legavo sempre le scarpe.
      Per consolarmi della fuga di Manganelli finii tra le braccia di
      Quasimodo che, riuscendo ad amare tre o quattro donne alla
      volta, era più permissivo.
      Con Quasimodo ebbi una relazione molto dolce ma non di
      grande importanza ed è caduta in semi - oblio anche perché
      gli psichiatri non l'hanno presa in considerazione e non
      esistono relazioni scritte da medici in proposito. (...)


           Alda Merini  da   Reato di vita (  Autobiografia e poesia )
     
     

REATO DI VITA ( Alda Merini ) 2



LE PRIME NOZZE

(...) Mia madre lasciò che mi sposassi prestissimo, mentre si era
      opposta quando avevo chiesto di entrare in convento.
      Mio padre si oppose, ma lei fu molto decisa e disse giustamente
      che la vita in famiglia di una madre è molto più meritevole ed
      onerosa di quella dei santi e non c'è grazia che possa
      illuminare una madre se non quella che viene direttamente da
      Dio. Fu così che Dio entrò nel mio matrimonio, un matrimonio
      cercato per sfuggire alla bramosia dell'esistenza che voleva la
      mia carne e la mia giovinezza per farne un tripudio di vana
      gloria.
      Si trascura spesso nelle mie biografie e nelle interviste il mio
      matrimonio con Ettore, durato una quarantina d'anni, che
      viene ad essere confuso con quell'atroce silenzio di cui mi si
      fa carico. In realtà solo dieci di questi trentanove anni furono
      passati in casa di cura e soffro quando sento che lo si vuole
      accusare di aver lasciato che mi ricoverassero, perché non
      credo che avrebbe voluto regalarmi quelle atrocità. Anche le
      mie figlie sono d'accordo nel ricordare un padre amorevole e
      premuroso sebbene assolutamente incapace di badare alle
      faccende di casa. Se qualcuno volesse vantarsi di avermi
      ricostruita, farei notare che io ero costruita ancora prima della
      nascita e la mia vita non sta nelle mani dei medici come non
      stava in quelle di mio marito, ma in quelle del destino.
      Mio marito Ettore era un uomo virtuoso, elementare, se per
      elementare si intendono gli elementi della natura. Non era un
      eroe da leggenda costruito sulla falsariga di ignobili date.
      Il suo realismo mi tenne sempre in piedi. Se è vero che - a suo
      tempo - mi fu dato anche qualche salutare scapaccione, lo ha
      fatto un po' punto dalla gelosia, ma soprattutto per tenere viva
      in sé quell'immagine virile alla quale sono poi stata fatalmente
      fedele.
      Quando madonna Follia ci prende alla gola, quando si sogna,
      avviene fatalmente una sfocalizzazione della realtà: l'uomo
      cade in un panteismo divino e non capisce più quando è ora
      di adeguarsi al ritmo della vita o - come il filosofo - vi ha già
      rinunciato.  (...)


         Alda  Merini   da   Reato di vita  (Autobiografia e poesia )

REATO DI VITA ( Alda Merini ) 3



IL PORTINAIO

(...) Da adolescente avrei voluto degli altri genitori e anche
      Manganelli la pensava come me. Forse eravamo  enfants
       maudits , figli maledetti, cioè poeti.
      Quell'arco tentacolare, quell'abominevole Edgar Allan Poe che
      era stato sia in me che in Magrelli, si mostrò qual era: il vero
      inferno della mente.Quindi il Portinaio, da presenza metafisica,
      diventerà poi anche presenza reale. Il Portinaio in questione
      era il Manicomio e anche personaggio di questi racconti del
     " durante l'elettrochoc " che forse non riuscirò mai a raccontare
       Vedere il portinaio reale è come accantonare le memorie più
       belle e più vive dell'esistenza per far posto alle brutture. E
       l'araba fenice che rinasce in me ogni mattina non poteva che
       inventare il Delirio Amoroso . Ho durato fatica in tutti
       questi anni a cercare di capire se il Portinaio intrigante e
       padre R. avessero visitato il mio corpo oltre che la mia mente,
       ma non ho avuto risposte soddisfacenti, solo derisioni e
       ammiccamenti. E così bianco e nero, giorno e notte, riposo e
       tortura sono l'alternativa di quella che viene chiamata
       schizofrenia. E non è vero che la schizofrenia genera arte, la
       schizofrenia è un baratro ed è una crepa simultanea  tra
       omertà e intelligenza. C'è un silenzio voluto nell'anima che non
       confessa neanche a noi i nostri amori e i nostri grandi dolori,
       e su questo doloroso silenzio si instaura vincente ogni
       Portinaio reale, il vero prezzo del manicomio. Quindi abbiamo
       eremiti, selvaggi, pensatori, ma soprattutto abbiamo preghiere
       non dette, non recitate e pensieri inconfessati. (...)


           Alda Merini   da   Reato di vita  ( Autobiografia e poesia )

REATO DI VITA ( Alda Merini ) 4


PADRE TUROLDO

(...) David Maria Turoldo, al quale ho dedicato varie poesie, come
      me fu un avido sognatore. La sua figura mi ha sempre
      entusiasmata, ma anche intimorita. Fu chiaro il distacco netto
      che aveva dal peccato, come poteva averlo un blasonato
      rispetto ad un qualsiasi cencio. Clamoroso in se stesso, David
      amò fino allo spasimo la sua " conversione " religiosa" e fu
      anche accusato di violenza verbale. La violenza verbale che -
      in termini aulici - si chiama oratoria, probabilmente non
      piacque alla chiesa, ma l'anima non può ribellarsi ad un certo
      tipo di potere?
      Turoldo era un uomo secondo me bellissimo, ma non nel senso
      classico della parola. Era un innovatore, in un certo senso un
      secolare convinto. Imperava con De Piaz, suo stretto
      collaboratore e i suoi molti discepoli culturali alla Corsia dei
      Servi, che fu anche un mio punto di incontri. Cenacolo di aiuti
      spirituali e morali, di positivi insegnamenti evangelici e
      soprattutto di cultura, era anche ricettacolo di belle dame.
      Voglio ricordare una cosa che ancora oggi mi stringe il cuore:
      dopo vari miei tentativi di piegare David a sentirsi santo, quel
      mio continuo chiedergli grazia, finì per irritarlo. Non voleva
      assolutamente essere considerato un uomo diseguale, diverso.
      Difatti scrisse Gli ultimi , una delle sue opere più dolorose,
      ma anche più umane.
      Al Costanzo Show parlai di David rispetto all'eutanasia. Egli
      l'aveva invocata, ma la Chiesa gliel'aveva rifiutata, perché non
      si può intervenire sulla volontà divina. Ci sono momenti di
      così grande dolore nei quali il poeta vuole fare giustizia di se
      stesso, anche rispetto alla vita. Forse nessuno ha capito che
      David era ansioso di raggiungere il suo Dio, come tutti i
      santi che buttano via la scoria umana per diventare solo
      anima. Turoldo, miracolo di vita, si spense - non ricordo
      esattamente dove e quando - ma so che lasciai la mia casa e
      corsi a vederlo ormai devastato dal male. Quel giorno
      spericolato di assoluto amore per lui e per la sua poesia,
      scivolai malamente per le scale per fare in fretta e mi feci male:
      fu forse questo il primo miracolo di David?
      Rimasi con Scheiwiller e uno stuolo immenso di fedeli sul
      sagrato ad attendere l'arrivo del cardinale per più di due ore,
      con quell'insopportabile dolenzia e con un freddo terribile.
      Persino i cavalli imbizzarrirono per il freddo.  (...)


          Alda  Merini  da   Reato di vita ( Autobiografia e poesia )

domenica 27 agosto 2017

REATO DI VITA ( Alda Merini ) 5


LE SECONDE NOZZE

(...) Giacinto Spagnoletti fu colui che, senza volerlo, combinò il mio
      second matrimonio con Michele Pierri.
      Michele Pierri, fondatore dell' Accademia Salentina, chirurgo
      valentissimo e a mio parere grande poeta, uscì con
      Contemplazione e Rivolta  contemporaneamente a me
      e a Betocchi nella Collanina di Schwarz.
      Tra me e Pierri nacque in tarda età una grande passione
      amorosa, all'inizio puramente telefonica, che i figli non
      capirono. Capì invece Ettore, mio marito, ormai gravemente
      malato; parlò con lui: " Le affido mia moglie, ne abbia cura e
      le faccia da padre".
      Ogni mattina Michele arrivava nella nostra stanza nuziale con
      il caffè, una rosa sul vassoio e una poesia d'amore. Io lo
      sgridavo perché rovesciava il caffè sulle lenzuola e
      soprattutto perché non mi lasciava dormire. Alle cinque del
      mattino Michele era già in piedi e faceva il giro di tutte le
      chiese lasciando oboli e offerte. Io cercavo di impedirglielo,
      non per gli oboli, ma perché mi lasciava sola per almeno tre
      ore in quella casa vuota e io tremavo di paura. Era una casa
      antica, trasandata e piena di stanze  comunicanti. C'era
      dappertutto il ritratto della prima moglie, uno anche sopra il
      letto matrimoniale. Avevo rispetto per " la povera Rebecca":
      trovavo che mi assomigliasse con quegli occhi inquieti e decisi.
      E se da un lato i figli mi erano grati per aver lasciato intatta
      la memoria della madre, dall'altra Michele era inquieto perché
      tenevo i miei abiti in una valigia. Ogni sera i figli si riunivano
      al tavolo comune e ricordavano la defunta. Io non ero gelosa
      della memoria di questa donna - medico anch'essa - le cui
      poesie d'amore, che io segretamente lessi, erano le più belle
      che avessi mai letto. Michele, che in gioventù era stato
      imprigionato per antifascismo, era un uomo straordinariamente
      somigliante a Raboni, un grande guru bianco, con i capelli che
      gli scendevano fin sulle spalle. Era un uomo terrificante: tutti
      gli obbedivano ed era di una straordinaria bellezza anche se
      già ottantenne. Quando era venuto a prendermi alla stazione
      di Taranto per il matrimonio, io non lo avevo mai visto di
      persona, ma lo riconobbi subito, e anche lui perché per quattro
      anni ci eravamo ardentemente amati al telefono.
      Allora io avevo un pianoforte, appoggiavo il ricevitore al
      calorifero e gli suonavo le più belle romanze d'amore. Fino
      all'una di notte continuavamo a parlarci da lontano.  (...)


         Alda  Merini   da   Reato di vita ( Autobiografia e poesia )



REATO DI VITA ( Alda Merini ) 6



IL DELIRIO AMOROSO

(...) Padre R. incarnava la sapienza di Manganelli, l'altezza di
      Michele,era bergamasco come il mio primo marito, insomma,
      era il compendio di tutti i miei amori in uno. Ma era un frate, e
      per giunta molto giovane e convinto della sua scelta. L' amore
      non consumato tra me e padre R. potrebbe essere rivisto nel
      Delirio Amoroso come la Recherche di Proust. Considero
      il Delirio il massimo libro autobiografico che abbia mai scritto
      finora.Misi mano all' opera sollecitata da Padre Volponi che,
      vedendomi stremata per la perdita in vita di Michele, mi invitò
      a raccontare cosa era veramente successo a Taranto e per
      quale ragione mi sentissi perseguitata dal Portinaio.
      Ai tempi del " delirio" ho vissuto una delle esperienze più
      infernali e al tempo stesso più paradisiache della mia vita. La
      paranoia a quei tempi era diventata preveggenza. Non facevo
      nulla, assolutamente nulla.Pativo fame e sete come ora. Non
      dormivo da sei anni. Dio mi aveva concesso di vedere l'Inferno
      e mai vidi cose così atroci e irripetibili; ma quando Egli mi
      parlava, la mia vita diventava teatro, un universo intero.
      Potevo vedere ciò che avveniva di qua e di là del mondo e
      quando mi svegliavo da queste mie grandi apparizioni di luce
     - e gli occhi mi bruciavano - ogni persona reale mi sembrava
      così ignobile e orripilante che piangevo ogni giorno.
      A volte avevo visioni terrificanti. Sentivo passi su e giù per le
      scale di qualche turpe individuo che truffava, vendeva , mi
     desiderava e sicuramente di notte mi violentava.
     Ma c'erano momenti che mi ripagavano di queste sofferenze, e
     invece dell' Inferno, vedevo il Paradiso. La stanza si illuminava
     e sentivo, proprio li sentivo, dei profumi nelle nari come di
     mughetto, ma non profumi che trovi dal profumiere: erano
     profumi che mi sembravano legati proprio al Paradiso. Era
     un'estasi divina, un sentire un godimento che nessuna terrena
     pratica amorosa potrebbe mai eguagliare. Tanta beatitudine mi
     scioglieva le ansie quotidiane e mi sentivo un angelo. Tale
     eccitazione mistica si ripercuoteva sul mio corpo e nessun
     autoerotismo riusciva a scioglierla.
     Poi arrivavano " le stigmate", ossia il segno che il Divino mi
     aveva visitata: era un dolore intenso che subentrava al piacere
     provato prima, era il dolore di ripiombare nel banale vivere
     quotidiano e nella mia caduta a terra, anche le mie figure di
     sogno si incarnavano negli esseri vivi e veri che incontravo. Se
     allora potevo scrivere pagine ispirate era perché il Divino, di
     cui nel delirio mistico facevo esperienza, io lo vedevo incarnato
     in padre R. e il turpe individuo che di notte mi violentava, si
     incarnava nella figura del Portinaio. (...)

            
            Alda  Merini   da   Reato di vita  ( Autobiografia e poesia )
     

Canzone per Alda Merini

 
 



                                  per te, mio uomo, l'unico che amassi in lunghi anni di stupida follia...

sabato 26 agosto 2017

LE GIOVANI PAROLE





               Sembri un tramonto, sembri un volto che corre il cielo....



MI SCAVO NELLA TUA DIREZIONE

Mi scavo nella tua direzione. Sono io
tuo canale. Tuo scorcio sono, bùttati qui.
Addosso bùttati. Da quel più strano dove
scaravéntati in mare. Voce. Sazia. Serenella. Fa'.
Ti presto questa cassa del torace, questi alveoli
umani dove il sangue va a bere.
Sembri un tramonto. Sembri corteccia e il secco.
Tu sembri un volto che corre il cielo.
Salute a te.
A terre in lontananza consegni la visione.
Tu parli adesso in arancione
e in rosa. Sono le sette. Tu provieni.
indichi un punto di somma luce. Tu.


                                                                        ***


ALLENAMENTO CON TE.

Scrivere ancora per te.
Contro quella tua sponda
ho sbattuto nello scontro
le tue punte aguzze, le mie - le tue braci.
Ho pianto molto - per te.
Ho spento in me un'ira scancellante
che ti voleva estinto. Una fatica
e furia che inghiotte le parole
e ne lascia sonore solo poche, confuse
ottenebrate. Ma per te è piovuta
nel mio fondo un'acqua feconda
goccia a goccia da un tempo
e adesso
sottovoce la notte una gioia
balbetta nel petto d'essere insieme
abbracciati in un letto
del mondo. E tentare, non stancarsi,
imparare ancora
nelle latitudini terrestri - come
fare la traversata, in un fiorendo
di compassione e passione, in un amando
tutto - di largo - in remissione.
Io attendo dolce duro
allenamento con te.


                                                                     ***


AL MATTINO, UNA MINIERA

Al mattino, una miniera
si spalanca nella luce del cielo
e se guardo su, l'aperto
mi conduce verso una sponda
di eccelse volute. C'è pace allora
dentro questa carne. Bene si cuce
ciò che si vede con la parte mancante.
Le mie pagnotte si impastano di luce
e mangeremo.
Una nutrizione potente scuote
risveglia le mie arcate.


                                                                             ***


ORMAI E' SAZIO DI FERITE

Ormai è sazio
di ferite e di cielo. Si chiama
uomo. Si chiama donna. E' qui
nel celeste del pianeta -
dice mamma. Dice cane
o aurora.
La parola amore l'ha inventata
intrappolato nel gelo.
Perso. Lontano. Solo. L'ha scritta
con ditale di rosso
in un silenzio caduto giù
dalla neve.

                                                                             ***



COMBATTE SEMPRE

Combatte sempre con le malinconie
nelle pietre ovunque, le porta con sé.
Allora dategli petali. Altre cose leggere.
Anche se non sa il nome. Salvatelo.



   Mariangela Gualtieri   da    Le giovani parole





venerdì 25 agosto 2017

DURA E' LA STELLA MIA...




Così, nella tua scuola, Amor, si face sempre il contrario di quel ch'egli è degno...



Dura è la stella mia, maggior durezza
è quella del mio conte: egli mi fugge,
i' seguo lui; altri per me si strugge,
i' non posso ammirar altra bellezza.

Odio chi m'ama, ed amo chi mi sprezza:
verso chi m'è umile il mio cor rugge,
e sono umil con chi mia speme adugge;
a così stranio cibo ho l'alma avvezza.

Egli ognor dà cagione a novo sdegno,
essi mi cercan dar conforto e pace:
i' lasso questi, ed a quell'un m'attegno.

Così ne la tua scuola, Amor, si face
sempre il contrario di quel ch'egli è degno:
l'umil si spezza, e l'empio si compiace.


     Gaspara  Stampa  da    Rime di madonna Gaspara Stampa



VISSA TECO SON IO....

 
 

                                                                     Poi recise il mio fil la giusta morte....



Vissa teco son io molti e molt'anni,
con quale amor, tu 'l sai, fido consorte;
poi recise il mio fil la giusta morte
e mi sottrasse a li mondani inganni.

Se lieta io goda nei beati scanni,
ti giuro che 'l morir non mi fu forte,
se non pensando a la tua cruda sorte
che sol ti lasciava in tanti affanni.

Ma la virtù, che in te dal ciel riluce,
al passar questo abisso oscuro e cieco,
spero che ti sarà maestra e duce.

Non pianger più, ch'io sarò sempre teco,
e, bella e viva, al fin della tua luce
venir vedraime e rimenarten meco.


        Jacopo Sannazzaro  da    Le Rime ( Sonetti et Canzoni )


QUANTO PIU' MI DISDEGNI...

 
 

                                                           Quanto più mi disdegni, più mi piaci...



Quanto più mi disdegni, più mi piaci
e quan' tu mi di' : " Taci",
una paura nel cor mi discende
che dentro un pianto di morte v'accende.

Se non t'incresce di veder morire
lo cor che tu m'hai' tolto,
Amore l'ucciderà 'n quella paura
ch' accende il pianto del crudel martire,
che mi spegne del volto
l'ardire, in guisa che non s'assicura
di volgersi a guardar negli occhi tuoi:
però che sente i suoi
sì gravi nel finir che li contende,
che non li può levar, tanto li ' ncende.


      Gianni Alfani     da      Rime