venerdì 26 maggio 2017

APOLLO E DAFNE : FRA BERNINI E D'ANNUNZIO

 
 
 

                                              Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei fatta!


(...) Disse: " Inseguiva il re Apollo Dafne
      lungh'esso il fiume, come si racconta.
      La figlia di Penèo correva ansante
      chiamando il padre suo  dall'erma sponda.
     Correva, e ad ora ad or le snelle gambe
     le s'intricavan nella chioma bionda.
     Ben così la poledra di Tessaglia
     galoppa nella sua criniera falba
     che fino a terra la corsa le ingombra.
    
     Rapido il re Apollo più l'incalza
   - infiammato desio - per lei predare.
     All'alito del dio doventa fiamma
     la chioma della ninfa fluviale.
    " O padre, o padre " grida, " tu mi scampa! "
     Chiama ella il padre suo con grida vane.
     " Padre, un veloce fuoco mi ghermisce! "
      E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce
      crescon la furia del dio predace.

     " O gran padre Penèo, perduta sono,
       ché mi si rompono i ginocchi.
       Ed ecco ella s'arresta, chiude gli occhi
       e trema e dice : " Or ecco m'abbandono".

       Una gioia s'aggiunge al suo terrore
       ignota che il divin periglio affretta.
       Tremante e nuda  dentro la chioma ode
       la vergine il tinnir della faretra,
       sente la forza del perseguitore,
       vede l'ardor pe' chiusi cigli e aspetta
       d'esser ghermita, e più non chiama il padre.
       Ma il dio la chiama: " Dafne, Dafne, Dafne! ".
       Ed ella non udì voce più bella.

       Il dio la chiama: " Dafne, Dafne! ". Ed osa
       ella aprir gli occhi: la rutila faccia
       vede da presso e la bocca bramosa
       mentre il dio con le due braccia l'allaccia.
       Rapita dalla forza luminosa
       gitta ella un grido che per la selvaggia
       sponda ultimo risuona. E l'ode il padre.
       Avido il dio districa la soave
       nudità dalla chioma che la fascia.

       Bianca midolla in cortice lucente,
       in folti pampini uva delicata!
       Tenera e nuda il dio la piega, e sente
       ch'ella resiste come se combatta.
       Tenera cede il seno; ma dal ventre
       in giuso, quasi fosse radicata,
       ella sta rigida ed immota in terra.
       Attonito, l'amante la disserra.
      " Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei fatta! "

       Subitamente Dafne s'impaura:
       le copre il volto e il seno un pallor verde.
       Ella sembra cader, ma la giuntura
       dei ginocchi riman dura e inerte.
       S' agita invano. L'atto della fuga
       invan le torce il fiato. Si disperde
       il senso di sua vita nella terra.
       E l'amante deluso ancor la serra.
      " Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?"

       Ma non il suo melodioso duolo
       giova a trarre colei dalla sua sorte.
       Nell'umidore del selvaggio suolo
       i piedi farsi radiche contorte
       ella sente e da lor sorgere un tronco
       che le gambe su fino alle cosce
       include e della pelle scorza fa
       e dov'è il fiore di verginità
       un nodo inviolabile compone.

      " O Apollo" geme tal novo dolore.
      " Prendimi", dov'è dunque il tuo desio?
        O Febo, non sei tu figlio di Giove?
        Arco- d' Argento non sei dunque un dio?
        Prendimi, strappami alla terra atroce
        che mi prende e beve il sangue mio!
        Tutto furente m'hai perseguitata
        ed or più non mi vuoi? Me sciagurata!
        Salva il mio grembo per lo tuo desio!

        Salvami, Cintio, per la tua pietà!
        Se i miei capelli, che t'avvinsero, ami,
        de' miei capelli corda all'arco fa!
        Prendimi, Apollo!". E tendegli le mani,
        che son fogliute, e il verde sale; e già
        le braccia sino ai cubiti son rami;
        e il verde e il bruno salgon per la pelle;
        e su per l'ombelico alle mammelle
        già il duro tronco arriva; e i lai son vani.

        " Aita, aita! Il cuore mi si serra.
         Vedi altra scorza che il petto m'opprime!
         O Febo Apollo, strappami da terra!
         Tanto furente, non sia più ghermire?
         Nuda mi prenderai su la dolce erba,
         su la dolce erba e su 'l mio dolce crine.
         Ardo di te come tu di me ardi.
         O Apollo, o re Apollo, perché tardi?
         Già tutta quanta sentomi inverdire".

         Il dolce crine è già novella fronda
         intorno al viso che si trascolora.
         La figlia di Penèo non è più bionda;
         non è più ninfa e non è lauro ancora.
         Sola è rossa la bocca gemebonda
         che del novello aroma s'insapora.
         Escon parole e lacrime odorate
         dall'ultima doglianza. O fior d'estate,
         prima rosa del lauro che s'infiora!

         Tutto è già verde linfa, e sola è sangue
         la bocca che querelasi interrottamente.
         In pallide fibre il cor si sface
         ma il suo rossore è in sommo della bocca.
         Desioso dolor preme l'amante.
         Guarda ei l'arbore sua ma non la tocca;
         l'ode implorare, ma non ha virtù.
         E chiama: " Dafne, Dafne!". Ella non più
         implora, non più geme. " Dafne, Dafne! "

         Ella non più risponde: è senza voce.
         Pur la gola sonora è fatta legno.
         Le palpebre son due tremule foglie;
         li occhi gocciole son d'umor silvestro;
         bruni margini inasprano le gote;
         delle tenue nari è appena il segno.
         Ma nell'ombra la bocca è ancora sangue,
         sola nel lauro la bocca di Dafne
         arde e al dio s'offre: virginal mistero.

         Curvasi Apollo verso quella ardente,
         la bacia con impetuosa brama.
         Ne freme tutta l'arbore, s'accende
         l'ombra intorno alla fronte sovrana;
         ogni ramo in corona si protende
         e la fronte d' Apollo è laureata.
         Pean! O gloria! ma sotto i suoi baci
         or più non sente che foglie vivaci,
         amare bacche. E Dafne, Dafne chiama.

         " Ahi, lassa, Dafne, ch'arbore sei tutta!
          Ahi, chi ti fece al mio desio diversa ?
          In durissimo tronco e in froda cupa
          la dolce carne tua or s'è conversa.
          La tua bocca vermiglia s'è distrutta,
          che pareva di fiamma ardere eterna.
          Come leggeri i piedi tuoi su l'erba,
          or radicati nella negra terra!
          M'odi tu? M'odi tu? Dafne, sei muta?

          Rispondi! ". Abbrividiscono le frondi
          sino alla vetta. Nel silenzio un breve
          murmure spira. " M'odi tu? Rispondi!"
          Move la vetta un fremito più lieve.
          Poi tutto tace e sta. Sotto i profondi
          cieli, le rive alto silenzio tiene.
          Il bellissimo lauro è senza pianto;
          il dolore del dio s'inalza in canto.
          Odono i monti e le valli serene.  (...)


             Gabriele D' Annunzio   da    Alcyone  - libro III
      
         

2 commenti:

  1. Alcyone è considerata una delle più belle raccolte poetiche del '900, certo il suo linguaggio poetico oggi ci pare un po' artificioso, ma comunque apre ad un modo mitico e misterioso che non farebbe male visitare di tanto in tanto.

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  2. Sono d'accordo. In particolare mi piace e ancora riesce ad emozionarmi questo bel mito che D' Annunzio ci descrive con un linguaggio poetico forse desueto ai giorni nostri, ma che mi affascina. " Subitamente Dafne s'impaura: le compre il volto e il seno un pallor verde..." Come non riconoscere la bellezza di espressioni come questa?

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