martedì 28 febbraio 2017

LA SCIENZA DEGLI ADDII 1



                                                  Sono io, Nadezda... Osip, dove sei?



(...) Ma quando gli amici vanno via, il the è finito e la stanza è
       silenziosa, la memoria e le mani la tormentano. Come
       testamento la ricetta della marmellata di arance confidata all'
       amica non le basta. E' vero, le poesie sono al sicuro, non
       bisogna trascriverle né ripeterle giorno e notte, ma proprio per
       questo, ora che la sua missione è conclusa, a lei che cosa resta
       se non l'immagine di quel vecchio consumato come un'inutile
       moneta dalla lima del secolo belva?
       Le sue mani non vogliono star ferme, la memoria non le dà
       tregua. Finchè un giorno capisce. La memoria le dice che c'è
       dell'altro da salvare, che un altro testamento è possibile. Non
       può andarsene dal mondo senza aver raccontato quanto sa di
       quell'uomo allegro che ha vissuto con lei e mai ha lasciato che
       perdesse il coraggio. Deve raccontare quanto sa della sua
       terribile epoca. E dei versi, e degli uomini, dei vivi e dei morti.
       E delle donne, quelle che hanno seguito gli uomini nella
       deportazione e quelle che sono rimaste a casa come lei, a
       torcersi nell'angoscia, perseguitate, sole, tacendo, mordendosi
       la lingua. Del resto, Osip e lei non hanno mai creduto che il
       tempo si muova in modo lineare, progressivo. Il tempo se ne
       va e poi torna, torna a passare dove è già passato, raccoglie,
       sposta, riporta: per questo l'occasionale reca il segno dell'
       eterno. Ma soprattutto non vuole avere davanti agli occhi l'
       immagine di lui come l'ha visto l'ultima volta, un uomo confuso
       che inciampa e rabbrividisce mentre altri uomini in divisa lo
       portano via all'alba senza il tempo di un saluto. Tantomeno il
       vecchio cencioso della baracca. Vuole riportare l'immagine di
       quel giovane sottile e pensieroso che recita cantando, a cui lei,
       coi tacchi, arriva al mento e che guarda da sotto in su con
       insolito stupore. L'uomo che ha conosciuto in un giorno di
       festa quando, senza intendersene molto di uomini, ha fatto la
       sua scelta, la scelta giusta.
       Così un giorno a Pskov, malgrado la vicina la stia spiando e
       il cuore, invece di battere, si ostini a borbottare come un ospite
       seccante, prende una risma di fogli, una scorta delle amate
       sigarette Belomorkanal e inforca gli occhiali rosa da vecchia
       zia, per cui tutti la prendono in giro.
       E si mette a scrivere.      (...)


             Elisabetta  Rasy   da      La scienza degli addii



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